Page 81 - Minerva oscura
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gione ubbidire conviene; la quale guida quello con freno e con
           isproni; come buono cavaliere lo freno usa, quando elli caccia; e
           chiamasi quello freno temperanza, la quale mostra lo termine infi-
           no al quale è da cacciare; lo sprone usa, quando fugge per lo tor-
           nare al loco onde fuggir vuole; e questo sprone si chiama fortez-
           za, ovvero magnanimità, la qual vertute mostra lo loco ove è da
           fermarsi e da pungere (al. pungare)'. Di che consegue che non è
           nobile, sì vile, sì bestia, sì non vivo, come colui che non usa nel
           cacciare il freno della temperanza, così quello che non adopera
           nel fuggire lo sprone della fortezza o della magnanimità. E qui io
           notava che non il solo concupiscibile caccia e il solo irascibile
           fugge; ma che per l'una potenza 'l'anima è inclinata a proseguire
           (cacciare, dice Dante) le cose che sono convenienti secondo senso
           e a fuggire le nocive'; per l'altra 'l'animale resiste a ciò che gl'im-
                                                              a
           pugna le cose convenienti e gli porta danno (S.  1   LXXXI 2)'.
           Dunque Dante poteva trovare due specie di viltà, in proposito: di
           chi non fuggisse e di chi non resistesse; di chi fosse dominato da
           passioni atte a infirmare o la potenza concupiscibile o la potenza
           irascibile dell'anima nella loro attitudine a 'fuggire': dalla tristizia,
           per la prima; dal timore, per la seconda; poi che a quattro si ridu-
           cono le passioni dell'anima, gioia e tristezza, speranza e timore
                a
                  æ
           (S. 1  2  XXV 4 e passim), che Dante trovava espresse nell'Enei-
           de (VI 733), e nel suo dottore, in Boezio (Cons. Phil. I). E io ave-
           vo già veduto come i fitti nel limo scontassero l'essere stati in vita
           tristi, l'essersi quietati nel male, e i rissosi nel brago fossero puniti
           per esser sorti sì alla vendetta, ma non averla compiuta per timo-
           re. Che se la vendetta era giusta, erano rei di non averla fatta, se
           era ingiusta, erano colpevoli d'averla desiderata. E qui tornando ai
           gran regi, io ricordava come Dante avesse adombrato l'ufficio del
           Principe, parlando di Arrigo (Ep.  V 3) il quale, come Cesare,
           avrebbe perdonato, come Augusto castigato (vindicabit). Il che si
           appartiene a giustizia. Ora io concludeva che quello che Dante
           desiderava in questi gran regi era precisamente il sentimento della



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