Page 140 - Minerva oscura
P. 140
Nessuno creda che.... Oh! no: non si può dire: Erano morti, inten-
dete? Non erano ancora vivi, nemmeno un poco, un poco da sen-
tire... quel lavorio di denti, quel rodere, quel mordere. E colui che
brancolava sopra loro, il padre, era già cieco... Il digiuno fu che
potè. Oh! come suona a questo punto, pieno e intero, lasciando
che i denti ci si ritrovino e cozzino a traverso, l'osso del teschio!
Come giusta prorompe l'imprecazione alla novella Tebe! Tebe no-
vella, perchè ella fece che Ugolino rinnovasse Tideo, effracti per-
fusum tabe cerebri, e vivo scelerantem sanguine fauces (Theb.
VIII 761 e seg.) Non altro aveva in mente il poeta, che appunto
comincia il racconto col ricordo di Tideo, e lo finisce con quella
esclamazione, in cui le parole: «Poichè i vicini, etc.» sono deriva-
te dal principio del IX libro della Tebaide: Asperat Aonios rabies
audita cruenti Tydeos; e le altre: «che se il conte etc.» sembrano il
commento alla forte espressione di Stazio (IX 3 e seg.) rupisse
fas odii. Anche: per concludere, è in Stazio un'espressione che
sola può insegnare qual sia il senso d'un verso di Dante:
io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso.
Stazio racconta:
Erigitur Tydeus vultuque occurrit et amens
Laetitiaque iraque, ut singultantia vidit
Ora trahique oculos, seseque agnovit in illo;
Imperat abscisum porgi....
Tideo nel trovare la sua morte nel viso del suo uccisore concepi-
sce il suo atto atroce: fa tagliare quella testa, se la fa porgere, la
rode, la mangia. Ugolino... si morde le mani, ma per furore, in
tanto. Pure, da quel gesto i figli presentiscono; dalle parole dei fi-
gli che in quel gesto avevano veduto la voglia di manicare (l'ave-
vano intraveduta come in un lampo perchè
140