Page 29 - Il fanciullino
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giare sempre più lungi il suo dolce salmo che finisce per confondersi
        con lo stormir delle foglie e col gorgoglio del ruscello, e morire.

            Ma poi per la poesia vera e propria, a noi manca, o sembra mancare,
        la lingua.

            La poesia consiste nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e
        dentro di noi.

            Guardate i ragazzi quando si trastullano seri seri. Voi vedete che han-
        no sempre alle mani cose trovate per terra, nella loro via, che interes-

        sano soltanto loro e che perciò sol essi sembrano vedere: chioccioline,
        ossiccioli, sassetti. Il poeta fa il medesimo. Ma come chiamare questi la-

        pilli ideali, questi cervi volanti della sua anima? Il nome loro non è fatto,
        o non è divulgato, o non è comune a tutta la nazione o a tutte le classi

        del popolo. Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de’ fanciulli la gioia
        più grande e consueta: che nome hanno? S’ha sempre a dire uccelli, sì

        di quelli che fanno tottavì e sì di quelli che fanno crocro? Basta dir fiori
        o fioretti, e aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra

        un greppo coperto di margherite e un prato gremito di crochi?
            Ora se vi provate a dire il nome proprio loro, ecco che il nome di

        Linneo non va, per cento ragioni, e il nome popolare varia, quando c’è,
        da regione a regione, anzi da contado a contado. Se il popolo italiano

        badasse a queste tali cose, fiori, piante, uccelli, insetti, rettili, che forma-
        no per gran parte la poesia della campagna, il nome che esse hanno in

        una terra, avrebbe finito per prevalere su quello dominante in altre. Ma
        gl’italiani abbarbagliati per lo più dallo sfolgorio dell’elmo di Scipio, non

        sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule. E così il poeta, se
        vuol poetare, bisogna che si lasci ogni tanto dire: “E questo che è? Che

        vuol dire? O poeta saccente e seccante!” E tuttavia così il poeta deve
        fare, e lasciar dire così, sperando, se non altro, che se ne avvantaggino

        i poeti futuri, i quali troveranno divulgati tanti nomi prima ignoti e per-
        ciò chiamati oscuri. In verità non è egli l’Adamo che per primo mette i

        nomi? Così deve operare, facendo a ogni momento qualche rinunzia
        d’amor proprio. Perché l’arte del poeta è sempre una rinunzia.

            Ho detto che deve togliere, non aggiungere: e ciò è rinunzia. Deve
        fare a meno di tanti ghirigori, così facili a farsi, di tante bellurie, così

        piacevoli alla vista, di tante dorature, che danno tanta idea della pro-
        pria ricchezza: e questa è rinunzia. Deve lasciar molto greggio e molto

        imperfetto. Oh! Come è necessaria l’imperfezione per essere perfetti!
        Lo sapeva anche Marziale che derideva quel Matone che voleva dir tut-




        G. Pascoli - Il fanciullino                                                                           25
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