Page 27 - Il fanciullino
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ha avuto innanzi sé dei modelli. Noi abbiamo specchiato il nostro stile
nell’arte latina, come i latini avevano fatto coi greci. Ciò può aver giova-
to a dare concretezza e maestà alle nostre scritture; ma quanto a po-
esia, ciò l’ha soffocata; la poesia non si fa sui libri. Poi amiamo troppo
l’ornamentazione; e questo gusto lo dimostriamo specialmente in ciò
che meno lo comporta: nella poesia.
Il fanciullino italico non ruzza che ben vestito e ben pettinato: le noci
con le quali fa a filetto, devono essere coperte di carta d’oro e d’argento.
Noi vogliamo farci sempre onore: invece di badare al giuoco, badiamo
a noi: ci stiamo a sentire e ammicchiamo alla nostra ombra. E anche
più che a noi, badiamo al pubblico: guardiamo con la coda dell’occhio i
grandi che stanno a vederci; e così facciamo tutto senza garbo e senza
scioltezza. E siccome, particolarmente ai nostri giorni, tutto da noi si fa
a concorso e tutto si dà all’asta e tutto si conclude con la aggiudicazione
e la premiazione, così ci proponiamo, più che altro, di sopraffare l’un
l’altro e di conquistarci con qualche grazietta il favore dei giudici. Nei
giochi dei nostri fanciulli, c’entra per molta parte la gherminella che è
cosa da attempati. Sono troppo scaltriti, i nostri fanciulli, e cercano me-
glio di essere primi, che di esser loro. Perciò la nostra poesia (per chia-
marla così) è per lo più d’imitazione, anzi di collezione, e sa di lucerna,
non di guazza e d’erba fresca. Noi studiamo troppo, per poetare; ed è
superfluo aggiungere che, per sapere, studiamo troppo poco. Mettia-
mo lo studio ove non c’entra.
O come? Non c’entra nel poetare lo studio? Sì, ma diretto al fine, che
Dante mostrò. Virgilio, che è lo studio, conduce Dante a Matelda che è
l’arte; l’arte in genere e in ispecie. L’arte di Dante è appunto la poesia.
Dunque lo studio condusse Dante alla poesia. Ebbene, Matelda, o la
poesia, è nel giardino dell’innocenza, sceglie cantando fior da fiore, ha
gli occhi luminosi, purifica nei fiumi dell’oblio e della buona volontà. Os-
sia, il poeta, mercé lo studio, è riuscito a ritrovare la sua fanciullezza, e
puro come è, vede bene e sceglie senza alcuna fatica, sceglie cantando,
i fiori che pare spuntino avanti i suoi piedi.
Io, senza insistere sul valore morale del mito tanto esatto e bello,
dico, interpretando il poeta per il rispetto artistico, che lo studio deve
essere diretto a togliere più che ad aggiungere: a togliere la tanta rug-
gine che il tempo ha depositata sulla nostra anima, in modo che tornia-
mo a specchiarci nella limpidezza di prima; ed essere soli tra noi e noi.
Lo studio deve togliere le scorie al puro cristallo che noi troviamo quasi
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