Page 28 - Il fanciullino
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casualmente; e quel cristallo pur con le scorie val più d’un vetro che noi
        dilatiamo e formiamo soffiando.

            Lo studio deve rifarci ingenui, insomma, tal quale Dante figura sé
        come avanti Beatrice così rispetto a Matelda; che se dall’una è sgridato

        e fatto piangere e vergognare come fanciullo battuto, dall’altra è, come
        bambino che non vuole o non può fare da sé, preso e tuffato nell’acqua

        e menato a bere alla fonte. Lo studio deve togliere gli artifizi, e renderci
        la natura. Così dice Dante. La sua arte è impersonata in Matelda, che è

        la natura umana primordialmente libera, felice, innocente.





                                                        XIV.



            Ma noi italiani siamo, in fondo, troppo seri e furbi, per essere poeti.

        Noi imitiamo troppo. E sì, che studiando si deve imparare a far diverso,
        non lo stesso. Ma noi vogliamo far lo stesso e dare a credere o darci

        a credere di fare meglio. Perciò sovente ci pare che, incastonando la
        gemma altrui in un anello nostro, noi abbiamo trovata e magari fatta la

        gemma; e più sovente ci imaginiamo che, dorando la statua di bronzo,
        quella statua non solo sia più bella, ma diventi opera nostra.

            Noi non gettiamo più il martello contro i blocchi di marmo: ci accon-
        tentiamo di pulire e lustrare le statue belle e fatte. Al più al più, noi fac-

        ciamo l’arte di Giovanni da Udine: eleganti stucchi: ma non ricordiamo
        quel che Giovanni disse, mi pare, a Pietro Aretino che ne lo ammirava:

        Bambocci vogliono essere!
            E le scuole ci legano. Le scuole sono fili sottili di ferro, tesi tra i verdi

        mai della foresta di Matelda: noi, facendo i fiori, temiamo a ogni tratto
        d’inciampare e cadere. L’ho già detto: se uno si abbandona alle delizie

        della campagna, teme che lo chiamino arcade; se un altro si vede avan-
        ti un’antitesi, sta un pezzo tra il sì e il no, temendo d’essere chiamato

        secentista. Mentre la mandra degli imitatori si butta alla rinfusa dietro
        qualche ariete maggiore, e tutti si mettono a belare o mugliare a un

        modo; sì che in certi tempi pare che gl’italiani (giudicandoli da quelli che
        scrivono in versi) non abbiano che l’amica, in certi altri non abbiano che

        la mamma; i poeti veri sono pieni del contrario affetto: vogliono cioè
        non essere imbrancati né nel verismo né nell’idealismo né nel simbo-

        lismo. Queste preoccupazioni li rendono troppo circospetti, troppo ir-
        resoluti, troppo sforzati. E Matelda si allontana da loro, facendo echeg-




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