Page 75 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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città. E andai a quel campo, c’era una guardia, e la guardia mi disse: che vuoi? E io

          risposi:  voglio  diventare  fidayn.  E  la  guardia  mi  disse:  perché?  E  io  risposi:  per
          tornare a casa mia. Così divenni un fidayn.»
               S’era parlato dopo la manovra che era finita alle due del mattino, dopo un gran
          sparare. S’era parlato sotto una tenda, circondati dagli uomini della Milizia fidayn, e

          vicino ad Abu  Giacobbe era sempre rimasto suo figlio: un bambino di nove anni,
          vestito  con  una  piccola  tuta  mimetica,  capace  di  sparare  smontare  rimontare  in
          cinquanta secondi un kalashnikov. Dopo il racconto Abu Giacobbe gli aveva detto:
          «Di’  alla  signora  come  ti  chiami».  E  il  bambino  aveva  risposto:  «Mi  chiamo
          Saladino». «Di’ alla signora chi era Saladino.» E il bambino aveva risposto: «Era un
          arabo che liberò la mia terra dagli invasori. Una specie di Fidel Castro». Allora Abu
          Giacobbe s’era arrabbiato: «Che c’entra Fidel Castro, figliolo? Chi t’ha detto queste
          cose? Noi non siamo comunisti, siamo fidayn e basta».

               Procedevamo  in  linea  indiana:  prima  un  fidayn,  poi  Abu  George,  poi  io,  poi
          Moroldo,  poi  Abu  Abed,  poi  l’altro  fidayn.  Il  terreno  era  accidentato,  colmo  di
          sassi: inciampavamo continuamente perché non si poteva usar la torcia elettrica e
          rischiararci il cammino. Tre volte dovemmo saltare un ruscello, due volte fummo lì

          per caderci dentro. Dovemmo anche superare una siepe rinforzata col filo spinato e
          passare  in  equilibrio  su  un  lavatoio  che  all’appoggio  dei  piedi  offriva  appena  un
          bordo  strettissimo,  sbocconcellato.  Si  trattava  di  un  luogo  assai  ben  nascosto,
          inaccessibile per chi ne fosse estraneo, e non saprei riconoscer la strada per cui ci
          arrivammo. Ricordo solo un viottolo coi solchi delle ruote, che saliva ripido per una
          collinetta, e un abbaiare di cani.

              […]  La  base  stava  in  una  vecchia  casa  colonica,  semidistrutta  dai
          bombardamenti. Di intatto non restavano infatti che due stanze, l’aia e la stalla. La
          stalla era chiusa e sorvegliata da una sentinella: di certo conteneva il deposito delle
          armi. Sull’aia era sistemata una mitragliatrice antiaerea, di marca cecoslovacca. Le
          stanze  erano  unite  fra  loro  con  una  specie  di  pianerottolo  e  un  tetto  di  frasche.  Il
          pianerottolo  era  rischiarato  da  un  debole  lume  a  petrolio.  Qui  ci  sedemmo,

          accucciati per terra, e Abu Abed si allontanò in cerca del comandante. Abu George,
          invece,  si  congedò  dicendo  che  rientrava  ad  Amman:  l’incalzar  della  nebbia  lo
          avrebbe aiutato. Non successe nulla per qualche minuto, fuorché star lì a guardare i
          fidayn  che  dormivano  distesi  per  terra:  e  per  terra  c’era  una  coperta  e  basta.
          Sembravano  tutti  giovanissimi,  poco  più  che  bambini.  Quasi  nessuno  vestiva
          l’uniforme ma invariabilmente calzavano scarponi da soldato, identici a quelli che
          portano gli americani in Vietnam. Accanto avevano il loro fucile, ora un Carlov e ora

          un  kalashnikov.  Un  ragazzo  lo  stringeva  alla  canna  come  se  temesse  d’esserne
          derubato nel sonno. D’un tratto si svegliò, mi vide, saltò in piedi e ne tolse la sicura:
          fissandomi con aria interrogativa. «Sahafa, stampa» lo rassicurai. Rimise la sicura e
          sorrise: «Alaikum Salam, la pace sia con te». Avrà avuto diciassett’anni, diciotto:
          sulle sue guance non era mai cresciuta la barba. Il volto era pallido, secco, severo; le
          mani erano lisce e curate. Mi sedette accanto, mormorò in inglese: «Mi chiamo Abu

          Asham.  E  tu?».  Glielo  dissi,  aggiunsi  da  dove  venivo,  mi  fissò  con  espressione
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