Page 74 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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gli israeliani presero anche il resto della Palestina e passarono il fiume Giordano. Io
in quei giorni facevo il camionista ad Amman. Portai il camion fino al ponte Allenby
e siccome non mi fecero passare dovetti gettarmi in acqua, raggiungere l’altra sponda
nuotando, mentre mi sparavano addosso. E giunsi al campo che era mezzo distrutto
dai bombardamenti, e nella stanza mia moglie non c’era. E per tutto il giorno la
cercai senza trovarla e poi la incontrai per caso nella scuola cattolica di Terra Santa.
Insieme ai bambini. E mi disse che l’artiglieria israeliana aveva sparato per ore sul
campo, tanta gente era morta e lei era scappata quaggiù pensando che non avrebbero
mica sparato in una chiesa che apparteneva a Gesù. Però, mentre diceva così proprio
in mezzo alla chiesa, arrivò una bomba al napalm e anche la scuola andò a fuoco. Io
non volevo partire perché non volevo ripetere ciò che aveva fatto mio padre
diciannove anni prima. Partii perché mia moglie si mise a gridare che non potevo
imporre certi orgogli ai bambini: se non si scappava ci ammazzavano tutti. C’erano
tanti bambini lì alla scuola, mica soltanto i miei. Ce n’erano almeno cinquanta, senza
babbo né mamma, e il prete diceva: bisogna fare una colonna, bisogna salvarli! Feci
una colonna e ci si mise in marcia: verso il ponte Allenby. Si marciò due giorni,
senza mangiare e senza bere, e un pomeriggio due aerei scesero per mitragliarci.
Dico, che senso ha mitragliare cinquanta bambini? Lo vedevano, no, che erano
bambini! E si passò il ponte Allenby perché se lasci la Palestina te lo fanno passare,
è quando chiedi di rientrare in Palestina che non te lo fanno passare. E si giunse ad
Amman. Dove ci si accorse d’aver lasciato tutto, coperte scarpe vestiti, e mi sentii
tanto umiliato perché era la seconda volta che fuggivo dal mio Paese lasciandoci
tutto, perfino le scarpe. E dissi a mia moglie basta, almeno prender la roba, e tornai
indietro col camion che avevo ritrovato. E la polizia mi bloccò, al ponte. Mi disse: il
permesso, dov’è il permesso. E io gli dissi: il permesso non ce l’ho però vi do la
mia parola d’onore che torno indietro, vo a prendere la mia roba e basta. E
l’israeliano sputò per terra poi disse: parola d’onore d’un arabo… Puaf! E mi colpì
sulla testa col calcio di un mitra, il sangue prese a colarmi sugli occhi. Arrivò un
altro israeliano, vide il sangue e si mise a litigare con quello che m’aveva colpito,
poi mi chiese scusa e mi disse: vai, vai. E passai, combattuto fra l’odio per
l’israeliano cattivo e la simpatia per l’israeliano buono, e arrivai al campo. Arrivai
alla mia stanza, e la mia stanza era vuota. Avevano portato via tutto, capisci, tutto!
Neanche una coperta mi avevan lasciato, neanche un paio di scarpe, e tornai al ponte
con le mani vuote. E la simpatia per l’israeliano buono era completamente sfumata,
ormai non restava che l’odio, e il dolore alla testa, e il sangue raggrumato sulla mia
faccia, e guidando il camion pensavo: è impossibile continuare così, non
cambieranno mai, avanzeranno sempre di più se noi non li fermiamo, è necessario
combatterli, ammazzarli con il fucile! E ricordai che c’erano i fidayn. Ricordai anche
che si allenavano in Siria. Così, giunto al bivio delle due strade, quella che porta ad
Amman e quella che porta a Damasco, girai a sinistra e presi la strada per Damasco.
Vi giunsi la sera. Non c’ero mai stato e mi sentivo perso. Fermavo la gente per
strada e chiedevo: dov’è che si diventa fidayn? La gente mi guardava stupita e tirava
di lungo. Ma poi trovai uno che mi disse: laggiù. E mi indicò un campo fuori della