Page 79 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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metro. Si assomigliavano molto malgrado uno fosse bruno e l’altro biondo. Avevano
il capo scoperto e abiti di città. Il biondo era perfino elegante: calzoni di velluto e
pullover rosso vino. Abu Kalid li squadrò e disse: «Na’am, sì». Fecero dietro front e
uscirono. Per tornare in meno di cinque minuti, però, stavolta indossando la tuta
mimetica e una specie di cuffia che gli chiudeva la testa fino al mento. S’erano anche
sporcati il viso di nerofumo, tra il nerofumo le pupille spiccavano lucide e tristi, e in
spalla portavano il kalashnikov. «Bkatirkun, arrivederci» mormorarono. «Fi ama
illa, arrivederci. Yallà, fate presto» rispose Abu Kalid. Poi ci spiegò che andavano
in avanscoperta, laggiù tra i campi di mine, per preparare un attacco che sarebbe
avvenuto domani. Neanche mezz’ora dopo avremmo udito quei tonfi. Quelle due
esplosioni.
[…] Esplose il primo boato. E subito dopo il secondo. E, spento l’eco del
secondo, l’aria fu lacerata dal martellare di una mitraglia pesante. Due raffiche,
lunghe. Ta-ta-ta-ta-ta, ta-ta-ta-ta-ta! E Abu Kalid rizzò il capo e spalancò gli occhi e
capì. E capii anch’io, capirono tutti. E tutti insieme ci alzammo, uscimmo sulla
veranda dove cinque o sei fidayn erano accorsi, ansimando, e Abu Abed balbettò:
«Cos’era? Cos’è?». «Mine» gli risposero. Ma nessuno ebbe il coraggio di chiedersi
ad alta voce: «Eran loro?». Se eran loro lo si sarebbe saputo più tardi, domani
mattina.
Eran circa le tre e mezzo quando decidemmo che starsene alzati era inutile:
meglio riposare un poco in attesa dell’alba. Così Abu Kalid e Abu Abed e Moroldo
si trasferirono accanto dov’erano tutti accampati, a me invece fu preparato un
giaciglio nella stanza in cui mi trovavo. Con premura quasi materna un fidayn
sistemò due coperte per terra, una come tappeto e una per rinvoltarmi, poi aggiustò
alcuni cenci a mo’ di guanciale, abbassò la fiammella del lume a petrolio e chiuse la
porta sussurrando: «Laileh Sa’eedi. Buonanotte». Ma chi avrebbe potuto dormire.
Cercai di impiegare il tempo annotando le frasi di Abu Kalid, studiando la carta
geografica, le cancellature sulla lavagna, infine approdai alla libreria che conteneva
cinquantasette volumi, la maggior parte in arabo ma alcuni in inglese: la vita di Ho
Chi Minh, il Diario di Che Guevara, un saggio di Giap, i Pensieri di Mao Tse-tung.
Conteneva anche una busta, così rotta che ti invitava a guardare, così la presi e
dentro c’erano le poesie di Abu Kalid. Un centinaio di pagine scritte a macchina, in
arabo, e in fondo alcuni fogli a quadretti con la traduzione in inglese. Potevo?
Dovevo? Gli avrei chiesto il permesso più tardi. E, seduta vicino al lume, le
ricopiai.
[…] Il rombo dell’aereo si abbatté a questo punto. Volava così basso che ti
sembrava di sentirgli sfiorare le punte degli alberi. Certo cercava noi. Certo i due
ragazzi eran stati scoperti, forse uccisi, e ora l’aviazione israeliana cercava di
individuare la base da cui eran partiti. A quell’aereo se ne aggiunse un altro. E poi
un altro, e poi un altro: sfrecciavano a intervalli precisi e ogni volta i muri della mia
stanza si squassavano quasi fossero carta. Nella veranda ci fu uno scalpiccio, poi
uno scambio di frasi soffocate. La porta accanto si aprì, riconobbi la voce di Abu
Kalid che dava ordini secchi. Angosciosamente sperai che non mettesse in funzione