Page 80 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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la  mitraglia  antiaerea,  così  localizzando  il  sospetto  di  chi  ci  cercava.  Se  non

          capivano che la base era qui, le speranze di cavarcela erano moltiplicate per cento.
          La mitraglia tacque. Presto il rombo si allontanò e svanì, verso sud. Ma era appena
          svanito che di colpo tornò: più forte, sempre più forte, mentre i muri si squassavano
          di nuovo, e lo scalpiccio riprendeva, e le frasi soffocate. Uno esclamò: «Ma lissa!».
          Ma lissa vuol dire «ancora no». Ancora no cosa? Bisognava uscire da quella stanza,
          Moroldo dov’era?, Abu Abed dov’era?, bisognava mettersi insieme. Aprii la porta,

          un fidayn mosse il fucile: «You stay! Stai lì!». Richiusi la porta, al rombo degli aerei
          si sovrappose lo scoppiettare di un elicottero. Ricordavo bene il rumore che fa un
          elicottero,  c’ero  stata  tante  volte  in  Vietnam,  ciò  che  non  ricordavo  era  cosa
          significasse starci sotto anziché sopra. Significava un terrore della fanciullezza, un
          terrore dimenticato, sepolto e che all’improvviso saliva alle vette della coscienza
          per  fiorire  in  un  sudore  ghiaccio.  Mi  distesi  per  terra,  sulla  coperta.  Bisognava
          rassegnarsi, calmarsi: non c’era nulla da fare. Solo sperare che andasse bene, mentre

          lui tornava, spietato, ma con un po’ di sforzo ti ci abituavi, potevi perfino sollevare
          il coperchio di questo bauletto e guardare cosa conteneva, accorgerti che conteneva
          esplosivo,  pensare,  oddio,  se  casca  una  bomba  speriamo  non  caschi  proprio
          sull’esplosivo,  e  finalmente  cedere  al  sonno,  alla  tensione,  chiudere  gli  occhi  e
          addormentarsi  ascoltando  uno  scoppio  lontano,  poi  uno  vicino,  poi  il  silenzio
          liberatore.

               L’alba mi colse con un fascio di luce che entrava da una finestra priva di vetri.
          Saltai in piedi con la sveltezza che ti dà solo la gioia di saperti viva, aprii la porta e,
          dalla maniglia allo stipite, si tendeva uno stranissimo filo: sottile come un capello.
          L’avevan  fissato  in  modo  che  si  rompesse  solo  se  uscivo:  non  si  fidavan  di  me.
          «May  I get out?» chiesi alla sentinella.  Capì, annuì.  Nel boschetto i fidayn stavan
          pulendo le armi, uno mi indicò il ruscello: «Wash? Lavare?». Raggiunsi il ruscello

          dove quattro ragazzi si stavan bagnando. Arrossendo fuggirono in risatine nervose.
          L’acqua  era  gelida,  buona:  puliva  l’angoscia  di  una  notte  assai  dura.  Ma  cos’era
          successo  in  realtà:  quei  due  erano  morti  davvero?  Tornai  verso  il  fidayn  che
          m’aveva  indicato  il  ruscello,  gli  sedetti  accanto  pensando  che  era  proprio  un
          bambino e non si mandano i bambini a morire. «Speak English?» gli chiesi. «Little,

          poco»  rispose.  «Last  night,  israeli  planes…  Bombing?  La  notte  scorsa,  gli  aerei
          israeliani…  Le  bombe?…»  «Na’am,  yes!  Always,  sempre.»  «And  comrades…
          Friends… Two, those two back? E i compagni, gli amici, quei due… Sono tornati
          quei due?» Strinse la bocca e gli occhi gli si fecero grandi, grandi. Chinò la fronte,
          gorgogliò:  «La,  no.  No  come  back.  Never  come  back.  Non  sono  tornati.  Non
          torneranno più».   16
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