Page 77 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
P. 77
sempre, e ha un occhio solo. I suoi soldati non la pensan così, hanno terrore di noi.
Chieda a Moshe Dayan che è successo negli ultimi giorni a El Hussob, a Neot
HaKikar, a Sodoma dove c’era quella fabbrica di potassio. Ora non c’è più. Gli
chieda cosa è successo all’impianto elettrico di Sodoma quando son rimasti al buio.
S’era messo una benda anche sull’occhio sano?» I fidayn scoppiettarono un’unica
risata soddisfatta.
[…] Poi, parlava da circa un’ora, un fidayn prese a tirargli la manica e a
sussurrargli qualcosa. Chiesi che volesse. Abu Mazim rispose: «Dice che ha una
domanda da porle a nome di tutti. Perché dice che lei vuol sapere tutto di noi ma noi
non sappiamo nulla di lei. Dice: lei trova che abbiamo ragione o no?». «Sì, Abu
Mazim. Temo che abbiate ragione. Però…» «Però?» «Però ho da raccontarvi una
storia, semplice e breve.» «Racconti.» «Quand’ero bambina volevo molto bene a una
maestra di scuola che era la migliore ragazza del mondo. Si chiamava Laura Rubicek
e viveva insieme a sua madre che era una vecchietta dolcissima e bianca. Una notte
arrivarono i tedeschi e le portarono via. Perché erano ebree. E non tornarono più.
Capisce?» «Capisco.» «E non ammetto che ciò si ripeta. E non lo ammetterò mai.
Capisce?» «Capisco, signora. Ora posso risponderle?» «Prego.» «Anche la mia
risposta è semplice e breve. Noi non odiamo gli ebrei. Alcuni di noi sono sposati a
ragazze ebree, molti di noi sono amici di ebrei. Noi odiamo i sionisti. Perché esser
sionisti è come esser nazisti: significa credere in uno Stato razzista, espansionista,
imperialista. Voi in Occidente identificate Israele con gli ebrei: non è la medesima
cosa perché…» Il fidayn di prima tornò a tirargli la manica e a sussurrargli qualcosa.
«Che vuole, Abu Mazim?» «Dice che vuol risponderle lui.» «Va bene.» Seguì un
grande silenzio, poi un colpo di tosse, infine il gesto di una mano che si strappava il
kassiah dal viso: rivelando un ragazzo. E il ragazzo parlò. In arabo, lento, perché
Abu Abed traducesse. «Io, queste cose di cui mi parli, io le conosco. Non perché le
ho viste ma perché le ho lette sui libri e perché le ho udite dai miei genitori che
vivevano accanto a una famiglia di ebrei. E penso che siano state cose orribili,
inconcepibili. I campi di sterminio eccetera. Ma fummo noi arabi, noi palestinesi, a
commetterle? Lo sai bene che no. Lo sai bene che foste voi europei. E dopo vi
vergognaste e tentaste di scordare dicendo che gli ebrei dovevano avere una patria
per sé. E li mandaste da noi. Ma se ci tenevate tanto a dargli una patria, perché non
gli deste la vostra? Un pezzo di Germania, o d’Italia, o di Russia o d’America?
Credevate che qui ci fosse il deserto? E se gli ebrei sono buoni come la tua maestra,
perché ci trattano come i tedeschi trattavano loro? Perché dopo averci rubato la
terra, massacrato, cacciato, continuano a perseguitarci? Tu dici che vuoi bene agli
ebrei. Ma allora tu vuoi bene a noi. Perché gli israeliani non sono più gli ebrei. Gli
ebrei, oggi, siamo noi.» Aveva appena detto così che un gigante in uniforme arrivò,
facendo scattar tutti in piedi. Senza presentarsi, ci esaminò lento al di sopra del
kassiah e lasciò cadere queste parole: «Se prendi la mia casa io prenderò la tua
casa. Se prendi il mio onore io prenderò il tuo onore. Se uccidi i miei figli io
ucciderò i tuoi figli». Poi, con un tono che non ammetteva repliche, annunciò che gli
uomini dovevan dormire e che noi lo dovevamo seguire. Lo seguimmo. Erano quasi