Page 73 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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e si coltivava la frutta: fichi, melograni e albicocchi. E poi si faceva il formaggio e

          si filava la lana perché si possedeva una trentina di pecore e dodici capre. E s’era
          felici.  Perché  non  ci  mancava  nulla  e  la  casa  aveva  anche  tre  camere  per  farci
          dormire  gli  amici  in  caso  di  bisogno,  e  la  domenica  si  andava  al  villaggio  per
          passeggiare in piazza e pregare dentro la moschea. Ma venne il 1948 e tutto finì. Era
          estate, ricordo, mi pare luglio. Io avevo tredici anni, il mio secondo fratello ne aveva
          otto e il mio terzo fratello ne aveva sei. E vennero i loro aeroplani e ci buttaron le

          bombe proprio sul villaggio, sui campi, e tanti morirono e si dovette scappare sui
          monti. E si rimase una settimana sui monti, poi si tornò perché tutto sembrava finito,
          ma  s’era  appena  tornati  che  loro  ci  bombardarono  di  nuovo,  e  non  solo  con  gli
          aeroplani,  anche  con  l’artiglieria.  E  altri  morirono,  tanti.  E  poi  arrivarono  i  loro
          commandos, e ci fecero uscire dalle case e si misero a minare le case che saltavano
          in aria con la roba dentro. Non le minarono tutte e mio padre voleva prendere un
          poco  di  roba  prima  che  facessero  saltare  la  nostra,  ma  loro:  “Via,  via!  Partire,

          partire!”.  E  ci  mandarono  via  senza  farci  prendere  nulla,  neanche  una  valigia,
          neanche un paio di scarpe, io ero scalzo e non potevo camminare: sentivo male ai
          piedi. Si lasciò perfino sessanta giare di olio che era il raccolto dell’anno, seicento
          chili all’incirca, ed alla mia mamma non permisero di agguantare il velo sebbene
          sapessero  che  per  una  mussulmana  è  terribile  non  coprirsi  il  viso  col  velo. Alla
          nostra vicina permisero di entrare un momento e afferrare il bambino di tre mesi, ma

          lei era tanto sconvolta che anziché il bambino afferrò un guanciale legato. In quanto
          devi sapere che noi i bambini appena nati si legano dentro un guanciale. Fu una cosa
          terribile,  sai.  Quando  lei  s’accorse  d’aver  tra  le  braccia  il  guanciale  senza  il
          bambino, la casa era saltata in aria… Impazzì.
              «Noi  si  camminò  tutto  il  giorno  poi  si  arrivò  a  quella  cava  dove  si  rimase
          nascosti in attesa che mi guarissero i piedi. S’erano tutti tagliati a camminar senza

          scarpe. Poi si arrivò a Betlemme dove ci misero in un campo di profughi e dove mio
          padre  morì,  non  s’è  mai  capito  di  che.  Non  mangiava  più,  non  dormiva  più,  non
          faceva che piangere e dire: “Perché? Cosa gli abbiamo fatto agli ebrei, con gli ebrei
          noi si andava d’accordo, ricordi quando si cucinava insieme? Ma che gli è successo
          agli ebrei? Non ci credo, io non ci credo!”. E quel campo divenne la nostra casa. In

          quattro ammucchiati sotto una tenda, poi in una baracca. E lì crebbi, mi feci anche un
          mestiere: camionista.  E a ventitré anni mi sposai, con una ragazza del campo che
          conoscevo fin da bambino: la nipote di quella che aveva preso il guanciale invece
          del figlio. E si riuscì a ottenere una stanza, una sola ma in muratura, e la si aggiustò
          graziosamente, e lì nacquero i miei bambini perché la vita deve continuare sì o no?
          Ci eravamo come rassegnati, capisci, solo quella notte io mi resi conto che non si
          poteva continuare così. Era una notte come tutte le altre. Mi svegliai, e vidi la roba

          ammucchiata, il letto che non era un letto, e ripensai alla bella casa di Hebron, e mi
          resi conto d’aver perso tutto: il mio letto, la mia casa, la mia dignità. E mi dissi per
          questo è morto mio padre, per la vergogna, e capii che bisognava combattere per
          riavere il mio letto, la mia casa, la mia dignità.»
              «E lo facesti, Abu Giacobbe?» «No, subito no. Accadde dopo, nel 1967, quando
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