Page 71 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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un  kibbutz  a  Ein  Harod,  oggi  hanno  distrutto  una  fabbrica  di  potassio  a  Sodoma,

          stamani hanno fatto scoppiare due bombe al mercato di Gerusalemme e stasera hanno
          sostenuto  una  battaglia  a  Safi.  Mentre  c’è  chi  li  ammira  e  chi  li  disprezza,  chi  li
          chiama eroi e chi terroristi: indottrinati nell’odio per l’odio.  Sicché hai deciso di
          andare a cercarli, conoscerli. Ma non negli uffici che hanno in città, e neppure nei
          campi  profughi  dove  la  maggior  parte  dei  visitatori  si  ferma:  nei  luoghi  dove  si
          nascondono, al fronte.

               Un’impresa  dura  se  ti  presenti  dicendo  che  la  tua  coscienza  è  sconvolta  dal
          dubbio, che in più non credi alla guerra perché non ammetti che gli uomini uccidano
          gli uomini, neppure in nome di un diritto, di un sogno: il più sacrosanto diritto e il
          più nobile sogno. Il tuo pacifismo li insospettisce, la tua obiettività li ferisce: occhio
          per occhio, dente per dente, rispondono, e se non sei con noi sei contro di noi. Ma
          v’è qualcosa cui il fanatismo più disperato si piega: la sincerità. Col pretesto di farsi

          intervistare,  Abu  Lotuf,  cervello  di  Al  Fatah,  m’aveva  attentamente  studiato.  Poi
          aveva preso un foglio e ci aveva scritto due o tre frasi in arabo: l’indomani ero stata
          informata  che  il  lasciapassare  richiesto  esisteva.  Viaggiavamo  da  circa  un’ora,
          attraverso i posti di blocco che si ripetevano con monotonia sconcertante, quando
          domandai  ad Abu Abed:  «Ma  cosa  c’è  scritto  in  quel  foglio?». Abu Abed  esitò,

          imbarazzato. Poi lo tolse di tasca e tradusse. Diceva: «Non è una nemica di Israele.
          Non è un’amica della Palestina. O non ancora. Ordine di aiutarla nel suo lavoro e
          farle vedere le basi. Sia a nord che a sud».


          […] Il posto è scelto coi criteri tipici della guerriglia: un bosco, una piantagione, le
          macerie  di  un  villaggio  distrutto,  le  mura  di  una  casa  colonica  abbandonata  ma
          intorno alla quale i campi si coltivano ancora. Individuarlo è difficile, ammeno di
          una  spiata  o  d’un  sospetto  preciso,  e  così  accade  in  Giordania  ciò  che  accade  in
          Vietnam:  l’artiglieria  bombarda  a  casaccio  la  zona,  gli  aerei  mitragliano  senza

          discriminazione gli automezzi che la percorrono. Soprattutto lungo la strada che va
          verso il fiume, vedere un Mirage che si abbassa su un’automobile o un taxi non è
          raro e viaggiarci diviene una sfida alla sorte. Sai quando parti, non sai quando e se
          arrivi.
               Riconoscemmo assai presto la strada che va verso il fiume. C’eravamo già stati,

          di  giorno,  per  recarci  al  ponte Allenby,  ed  essa  è  inconfondibile:  si  arrampica  a
          spirale su per le montagne, poi scende sotto il livello del mare e lo sbalzo ti provoca
          ronzio  agli  orecchi,  senso  di  oppressione.  Però  non  dicemmo  nulla  ai  nostri
          accompagnatori: la loro bocca era chiusa in un silenzio che chiedeva solo silenzio e
          il loro nervosismo era aumentato. Per trarre in inganno gli aerei, Abu George aveva
          spento un faro dell’automobile e, per sentirli arrivare, Abu Abed aveva abbassato il
          vetro  del  finestrino.  Qui  si  sporgeva  continuamente,  teso  a  ogni  rumore  sospetto.

          Solo quando apparve quel lago di luce giù nella vallata al di là del confine, e dietro
          di esso altra luce, meno chiara ma più diffusa, i due uomini si lasciarono andare in
          un  grido:  «Gerico!  Gerico!  Gerusalemme!».  E Abu  George  aggiunse,  con  la  voce
          incrinata  dal  pianto:  «Sento  il  profumo  dei  gelsomini  di  Gerusalemme».  Infine
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