Page 69 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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«Se prendi la mia casa io prenderò la tua casa.
Se prendi il mio onore io prenderò il tuo onore.
Se uccidi i miei figli io ucciderò i tuoi figli.»
Partimmo di notte, da Amman. La notte era limpida e fredda, ottima pei
bombardamenti, l’aria tremava di mille minacce. Abu George mormorò: «Sei certa
di volerci andare? Tempo fa un giornalista mi mandò pazzo perché ce lo portassi ma
quando venne il momento rifiutò di seguirmi. Sei certa di volerci andare?». «Sì. Abu
George.» «Non hai paura?» «Ne ho molta, Abu George.» «Ne avrai di più all’alba,
il peggio viene con l’alba. È allora che arrivano gli aeroplani o che tirano con
l’artiglieria.» «Lo so, Abu George.» «E va bene.» Abu Abed invece non disse nulla,
s’era chiuso in mutismo e si mordeva le unghie. Partimmo con una vecchia
automobile: Abu George stava al volante e Abu Abed accanto a lui. Tra i sedili
tenevano un mitra e ogniqualvolta capitava un sasso o una buca il mitra rimbalzava
sordo, la canna si abbassava verso me e Moroldo. Moroldo la tirava su brontolando:
«Badiamo di farci arrivare vivi, eh?». Il primo posto di blocco lo trovammo appena
usciti da Amman. A fermarci fu la polizia giordana che ci lasciò proseguire senza
difficoltà ma avevamo percorso pochissimi metri che due fidayn con la tuta
mimetizzata e il volto coperto dal kassiah balzaron dal buio puntandoci addosso i
kalashnikov. Abu George avvertì: «Fatah!». Ma la parola, che di giorno era un
magico lasciapassare, di notte non bastava più. Fu necessario esibire i fogli timbrati,
firmati, spiegar dove andavamo e perché. Infine fummo davvero in viaggio lungo
quella strada che con un po’ di sfortuna avrebbe potuto portarci a morire, e Moroldo
chiese: «Tutto a posto?». Io gli risposi: «No, grazie». Così lui aggiunse: «Neanch’io.
Ma l’abbiamo già fatto, siamo stati in Vietnam». «Dalla parte degli americani,
Moroldo. Ora è come se ci tornassimo dalla parte dei vietcong.» Abu Abed e Abu
George si scambiarono un’occhiata scontenta. Non gli piaceva sentirci parlare
italiano. Ci conoscevamo da cinque giorni e non si fidavan di noi. Né noi, a conti
fatti, di loro. Ci avevano dato quei nomi, Abu George e Abu Abed, ma George non si
chiamava George e Abed non si chiamava Abed. Di vero non c’era che Abu,
l’appellativo che i guerriglieri palestinesi usano invece di camerata, compagno.
Significa Padre.
[…] [Abu Abed] come George, era entrato nella Resistenza da poco e lo capivi