Page 64 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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miei occhi. Perché lì non ero alla guerra, mi spiego? Ero in una città che stava per

          inaugurare le Olimpiadi e… Quei ferrovieri che cadevano con le loro bandiere. Uno
          dopo  l’altro,  a  catena.  Quelle  vecchie  che  ruzzolavano  a  capofitto  giù  per  la
          gradinata.  Quei  bambini  che  correvano  terrorizzati.  E  quel  bambino  che  prima
          d’essere a sua volta ucciso urlava al ragazzo tagliato in due da una raffica di mitra:
          «Umbertooo! Que te han hecho, Umbertooo?!?».

               Come dimenticare, infine, ciò che fecero a me? Il Battalion Olimpia (in borghese
          ma con la mano sinistra fasciata da un fazzoletto bianco per riconoscersi) irruppe
          sulla terrazza dopo qualche minuto. Dieci, venti? Questo non lo ricordo. Sordi a un
          giornalista tedesco che gli diceva «No, no, esa es una famosa periodista italiana» mi
          agguantarono per i capelli. Mi scaraventarono contro il muro, mi picchiarono. Poi,
          come agli studenti, mi ordinarono di stendermi per terra e a loro volta adagiati per
          terra  (ma  sotto  il  muretto  del  davanzale,  quindi  al  riparo)  presero  a  puntarmi  le

          rivoltelle. Il dito sul grilletto. Poi, quando fui colpita dalle pallottole, mi lasciarono
          lì a sanguinare. E soltanto a buio, per le insistenze del giornalista tedesco («Capitán,
          no  es  una  estudiante,  es  Oriana  Fallaci  la  ecritora  y  periodista»),  mi  tiraron  via.
          Come?  Riagguantandomi  per  i  capelli  e  trascinandomi  giù  per  le  scale  come  un
          sacco di patate, sicché a ogni gradino il mio corpo batteva sulle ferite. Per le scale

          un giovane soldato mi rubò l’orologio. Si chinò e me lo sfilò dal polso. Ridendo.
          Fuori, sempre ridendo, altri due militari mi lasciarono per terra. Dove? Nel punto da
          cui cadevano lo sterco e il fetido liquido d’una stanza da bagno sventrata, suppongo,
          da una cannonata. Mi cadevano sul petto, imbrattandomi anche la faccia. Allora uno
          degli studenti arrestati e messi contro il muro esterno del Chihuahua Building si tolse
          il pullover e me lo gettò gridando: «Por tu cara, Oriana! Per la tua faccia». Cortesia
          per la quale venne aspramente punito dai due militari che si gettarono su di lui e
          presero a bastonarlo coi calci dei fucili.

              (Di violenze simili cioè di violenze «minori» ne accaddero tante, del resto. Una
          mi  è  stata  raccontata  da  vari  corrispondenti  stranieri,  e  riguarda  un  fotografo
          dell’Associated Press. Sulla fatale terrazza del terzo piano c’era infatti un fotografo
          dell’Associated  Press.  Quello  che  scattò  le  tre  fotografie  del  mio  ferimento.  La

          prima, nell’attimo stesso in cui vengo raggiunta dalle pallottole e con una smorfia di
          dolore  alzo  le  braccia.  La  seconda,  mentre  mi  abbatto  colpita.  La  terza,  mentre
          giaccio svenuta. Ebbene: conclusa la strage organizzata, i militari gli ordinarono di
          consegnare  i  rullini.  Cosa  che  egli  fece  salvando  cioè  nascondendo  il  rullino
          contenente le tre fotografie del mio ferimento. Ma poiché esitava, mi dissero quei
          corrispondenti, lo picchiarono e gli tagliuzzarono il torace con la baionetta.)

              […]  Credendomi  morta,  invece  di  lasciarmi  al  Pronto  Soccorso  mi
          scaraventarono  in  uno  stanzone  pieno  di  cadaveri  ammucchiati.  Infatti  è  qui  che
          riaprii  gli  occhi:  tra  i  cadaveri  ammucchiati.  Sul  mio  stomaco,  ricordo,  le  gambe
          d’un vecchio magrissimo che alla caviglia destra aveva un cartellino con un numero.
          Non me ne raccapricciai più del necessario. In Vietnam di cadaveri ne avevo visti
          tanti. E una volta, senza accorgermene, avevo dormito per tre ore accanto a quello

          d’un  Marine.  Però  mi  arrabbiai  molto.  (È  poi  così  difficile,  per  gli  infermieri,
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