Page 59 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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vietcong. Neanche filovietcong. Per l’offensiva del Tet i vietcong dovettero venire
dalle campagne, dalle altre province, e persero proprio perché erano contadini che
non conoscevano questa città. Non c’erano mai stati e ignoravano perfino dove fosse
il palazzo presidenziale.
Persero anche perché gli abitanti di Saigon non li aiutarono affatto. Gli
chiudevano la porta in faccia anche quando chiedevano un bicchier d’acqua. A volte
li segnalavano alla polizia. Parlo di gente del popolo: di poveri, di operai, di risciò.
Checché se ne dirà quando si vorrà far credere a una sollevazione popolare
spontanea, così come l’annuncia il colonnello Giang, la verità non cambia: è una
città di collaborazionisti, Saigon. E non duecentomila collaborazionisti, come
afferma lui, ma un milione, due milioni, forse tre. Quasi tutti si son compromessi a
Saigon: dal mendicante che tende la mano in via Tu Do al cameriere che guadagna
ventimila lire al mese quando va bene, dalla prostituta che adesca in via Le Loi al
venditore di ananassi in via Cong Ly. Si son piegati tutti agli americani, ai
governativi, all’amara realtà di un Paese che per sopravvivere doveva tradire. Sono
tutti corrotti come conviene a un sistema dove la corruzione è normalità anzi legalità,
e anche per chiedere l’ora bisogna dare la mancia. Al solito, e secondo le regole
della Storia, coloro che hanno osato e si sono sacrificati costituiscono una minoranza
infinitesimale. Presentarci i saigonesi come futuri eroi è una truffa. Negare che la
paura dei comunisti li attanaglia è menzogna. Tacere le realtà seguenti è disonesto.
Saigon è la città dove nel 1951 si rifugiarono i cattolici più irriducibili, più
reazionari: quelli per cui il rosso è il colore dell’inferno e, quando sventola il rosso,
meglio il suicidio. Se Thieu è rimasto al potere per ben dodici anni non si deve solo
agli americani: si deve anche a loro. Se monsignor Lemaitre, rappresentante del
Vaticano, ha fatto una politica così sfacciatamente filostatunitense, non si deve solo
alla sua cecità: si deve anche a loro. Quindi con loro non serve affermare che forse il
diavolo è meno brutto di quanto sembra, non serve spiegare che nelle zone occupate
dai nordvietnamiti nessuno vieta di andare alla Messa: il giorno di Pasqua le chiese
eran piene a Kontum e Pleiku e Danang. Intervistando un cattolico vecchio e malato,
ero rimasta sbalordita a sentirgli dire: «Ho comprato una rivoltella. Ci ho messo due
colpi in canna. Appena arriveranno, mi sparerò». Credevo che si trattasse di un caso
isolato. Poi ho scoperto che una quantità di cattolici predica a Saigon il suicidio e ci
si prepara. Naturalmente, prima di farlo, tenteranno di partire. Ma l’impresa è
diventata quasi impossibile. I visti di uscita sono concessi solo attraverso
raccomandazioni e imbrogli, a ottenere una prenotazione su un aereo che decolla da
Than Son Nhut ci riescono ormai pochi eletti. Gli uffici delle compagnie traboccano
[di] folle isteriche che porgono buste gonfie di soldi agli impiegati che metton l’ok
sui voli per Bangkok, Singapore, Hong Kong, Taipei. Il commercio dei biglietti è
diventato turpe. Idem il commercio dei passaporti, dei visti, dei certificati (falsi) di
matrimonio con un cittadino straniero. Sembra d’assistere al mercato indegno della
vita comprata al fronte tre o quattro anni fa: cinquecentomila piastre al capitano per
essere messo in retrovia, un milione al colonnello o al generale per avere l’esonero
dal servizio militare. Un certificato falso di matrimonio con uno straniero può