Page 58 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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Poi la paura dell’anarchia, del caos che si scatenerà nelle ore di interregno. È

          successo a Hué, a Danang, a Konlum, a Nha Trang dove le bande dei criminali sono
          entrate  in  azione  nelle  ore  di  vuoto  che  passa  tra  il  dileguarsi  delle  autorità
          sudvietnamite e l’arrivo delle truppe nordvietnamite. Hanno saccheggiato, bruciato,
          violentato, ammazzato. E ciò, mi ha detto padre Tinh che è noto per i suoi rapporti
          con  i  vietcong,  preoccupa  perfino  i  vietcong.  Del  resto  li  preoccupa  anche  la
          xenofobia. Essa è molto facile nei Paesi che furono a lungo sfruttati dai bianchi, ed è

          molto intensa a Saigon dove ogni bianco è un possibile americano. Qui l’odio per gli
          americani  è  infinito,  quasi  più  rabbioso  tra  gli  anticomunisti  che  tra  i  comunisti.
          Dagli americani un anticomunista si sente abbandonato, tradito. Sogna di vendicarsi
          e,  incontrando  un  bianco  nel  caos,  non  si  preoccuperà  certo  di  chiedergli  il
          passaporto  prima  di  linciarlo.  Per  questo  la  gran  maggioranza  degli  stranieri,
          centomila  a  far  poco,  sono  già  partiti.  Per  questo  chi  non  è  partito  si  prepara  a
          partire, magari con una valigetta e basta. Per questo le ambasciate sono quasi vuote.

          Cominciarono  con  l’allontanare  le  famiglie  dei  funzionari,  poi  col  ridurre  il
          personale, poi col limitarlo a cinque o sei compreso l’ambasciatore: ora tocca anche
          agli ambasciatori. Entri in un’ambasciata qualsiasi e ti aggiri per corridoi deserti,
          uffici semivuoti, casse imballate, e in qualche angolo del giardino c’è sempre un falò
          di documenti-che-è-meglio-bruciare. Mentre bruciano i documenti, la parola che odi
          più  spesso  è  «evacuazione».  Non  sono  già  evacuati  i  membri  della  Commissione

          internazionale  di  controllo  e  supervisione  inutilmente  costituita  dagli  accordi  di
          Parigi? Ungheresi, persiani, indonesiani, polacchi. Via tutti, col loro fallimento. Non
          si  accingono  ad  evacuare  anche  gli  americani  più  ostinati?  Sono  pronti  a  partire
          anche i giornalisti. Non li seduce nemmeno la tentazione di vivere l’atto conclusivo
          di  una  tragedia  che  hanno  seguito,  rischiando  la  pelle,  per  anni.  Dalle  bombe  al
          linciaggio, i rischi son tanti che restare qui rasenta il suicidio.

               Poi la paura di coloro che temono le punizioni e le rappresaglie dei vincitori, o
          la  paura  dell’insurrezione  vietcong:  annunciata  ufficialmente  dal  Governo
          rivoluzionario provvisorio. Tra i paradossi di Saigon c’è anche la missione del Grp,
          installata dagli accordi di Parigi. Si tratta di duecentoquaranta vietcong e cinquanta
          nordvietnamiti che da due anni vivono dentro un recinto spinato della base aerea a

          Than Son Nhut. Qui ricevono, ogni sabato mattina, i giornalisti stranieri. Qui il 12
          aprile,  sotto  la  bandiera  di  Hanoi  e  il  ritratto  di  Ho  Chi  Minh,  vestito  della  sua
          uniforme  verde  oliva,  il  colonnello  Vo  Dong  Giang  ha  rivelato  che  il  Comitato
          rivoluzionario di Saigon ha già lanciato l’appello all’insurrezione. E ha fatto capire
          che sarà violenta. Chi ha vissuto l’offensiva del Tet ed è stato a Hué dopo la rivolta
          del 1968 sa di cosa parlava. Parlava di cadaveri. Tanti, tanti cadaveri. E comunque
          s’è mai vista una guerra fratricida finire nell’abbraccio collettivo, nel vogliamoci-

          bene-e-quel-che-è-stato-è-stato? Chi si è battuto, chi è stato braccato, perseguitato,
          chi ha avuto compagni torturati e uccisi, non è certo disposto al perdono. Perciò una
          moltitudine  immensa  trema  a  Saigon.  E  non  necessariamente  composta  da
          collaborazionisti, stranieri con la coscienza sporca, ricchi borghesi che sul sangue
          degli altri hanno fatto milioni e milioni di piastre. Saigon non è mai stata una città
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