Page 53 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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Mi sono spinta nei quartieri di Già Dinh e Cholon. Metà di Già Dinh non esiste
più. Esistono solo macerie, alte non più di mezzo metro, e dalle macerie annerite si
alza ogni tanto lo scheletro di un muro, il troncone di una porta, un albero ormai
ridotto a carbone. Intorno, taxi carbonizzati, autobus rovesciati, biciclette contorte,
pezzi di mobili ridotti in cenere. Paragonare tutto ciò a un terremoto è insufficiente.
Un terremoto è molto meno, e un terremoto è pulito. L’immagine giusta resta quella
di Stalingrado o Berlino subito dopo la guerra. Anche per via dei cadaveri. Non c’è
tempo di raccoglierli tutti, e molti corpi sono lì che si disfanno al sole. L’aria è
ammorbata da un puzzo terribile, in certi punti fa quasi svenire. Senti quel puzzo e
non sai di dove viene perché i morti spesso non si vedono: tornando a cercare
qualcosa fra le macerie la gente li copre con le stuoie e i giornali. Sotto un giornale
ho visto un vietcong. Si capiva che era un vietcong per via del nastro rosso che
aveva al braccio. Sopra il giornale c’era una rosa. Dio sa come hanno fatto a trovare
una rosa a Già Dinh. Dio sa come hanno fatto a trovare il coraggio di posarla lì.
Dopo Già Dinh sono andata a Cholon. Dal quartiere di Cholon, il generale Loan
non è ancora riuscito a snidare i vietcong perché la popolazione si rifiuta di evacuare
e neanche il militare più cinico si assume la responsabilità di annientarla con un
massacro totale. Sembra che la popolazione, qui, sia in buona parte coi vietcong, che
dia loro da mangiare e da bere, che li ospiti nelle case senza farsi pregare. Le case
sono tutte bucate dai fucili e dai mitragliatori: si combatte ancora di porta in porta, di
finestra in finestra, e qui i vietcong sono bene armati, dispongono perfino di razzi. Ti
inoltri per una strada che sembra tranquilla, odi un fischio e non fai a tempo a gettarti
per terra che il razzo è già esploso.
[…]
Anche Cholon sta cadendo. Stamane sono andata all’aeroporto, che è ancora
chiuso ai voli civili, e ho trovato un elicottero che mi ha fatto volare a bassa quota
sopra i quartieri dove sono ancora i vietcong. O da cui i vietcong sono stati appena
scacciati. È uno spettacolo atroce, visto dall’alto. Almeno un quarto di Saigon non
esiste più, è rasa al suolo. Non riconosci nemmeno le strade. Dov’erano le strade e
le case vedi solo distese di terra carbonizzata, di morchia. Per miglia e miglia.
Macché Berlino, macché Stalingrado: sembra Hiroshima. È sparito tutto, capisci?
Tutto. Nel novanta per cento dei casi erano le case dei poveri. Quei poveri che ora
affollano i centri di raccolta della Croce Rossa, le scuole, gli ospedali, ammucchiati
per terra come le pecore, mentre funzionari governativi innalzano cartelli:
«Dobbiamo la nostra disgrazia ai vietcong». E se avesse ragione chi sostiene che
l’offensiva vietcong non fu militare bensì politica, non mirava a conquistare caserme
e ambasciate bensì a scuoter l’indifferenza di un popolo ignaro e lontano dalla vera
guerra? Così i vietcong avrebbero davvero vinto, perché i poveri cui gli aerei
americani e sudvietnamiti hanno disfatto la casa e ucciso i figli con le bombe al
napalm d’ora innanzi non saranno più indifferenti. L’odio li spingerà a fare una
scelta, e la loro scelta non cadrà su coloro che li hanno distrutti, anche se per caso
siano stati costretti a distruggerli. È toccato anche a Cholon. […] Come bruciava
Cholon quando siamo volati lì sopra! Le fiamme inghiottivano perfino le barche