Page 51 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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mi mancava a New York dove le giornate schizzavano via in una corsa affannosa,

          gonfie di problemi, di appuntamenti, di tedio. Non succedeva nulla di straordinario a
          New York, nulla  di  imprevisto.  Mi  sentivo  una  formica  persa  fra  milioni  di  altre
          formiche:  attive,  organizzate,  e  senza  alcun  merito  della  loro  sopravvivenza.  Le
          finestre  che  vedevo  dalla  mia  finestra  erano  tutte  uguali.  Il  fornello  del  gas  si
          accendeva da sé, non avevo bisogno di alcun fiammifero. I miei amici erano buoni,
          educati, e protetti da una assicurazione sulla vita. E in tale stato d’animo giunse la

          lettera di François. Non col timbro «Apo Mail» che macchiava appena la busta di
          Pip ma coi francobolli vietnamiti che bastavan da soli a nutrire il mio scontento. Era
          una lettera breve, chiara come lui. Ironizzava sul mio rientro nella pax americana e
          forniva un ritratto di Saigon sotto le feste. «V’è una tranquillità a cui nessuno crede.
          A  mio  parere  i  vietcong  stanno  preparando  qualcosa  di  grosso.  […]  Se  il  grosso
          accade e torni a Saigon, portaci una bottiglia di Chianti. Saluts, Pelou.»

               La lessi in preda all’invidia. Stava per accadere qualcosa a Saigon e io non ero a
          Saigon. Se avessi potuto trovare una scusa per avvicinarmici. Un reportage ad Hong
          Kong, in un posto da cui fosse svelto rientrare laggiù se il grosso fosse scoppiato.
          Poi aprii il «New York Times» e vidi la notizia. Diceva che due ore dopo l’inizio
          del  Tet,  il  capodanno  vietnamita,  diciannove  vietcong  avevano  attaccato

          l’ambasciata  americana.  Armati  di  razzi  anticarro  B40  e  bazooka  da  35  pollici,
          avevano fatto un buco nel muro di cinta e attraverso quello erano entrati nel giardino
          restando padroni del campo fino al mattino. La battaglia s’era conclusa alle nove, i
          diciannove vietcong erano stati uccisi, ma combattimenti avvenivano in ogni punto
          della città. L’indomani le cronache erano ancor più drammatiche. Non si trattava del
          solo  attacco  a  Saigon  bensì  di  un’offensiva  coordinata  e  in  grande  stile:  ci  si
          ammazzava  a  Danang,  a  Dalat,  a  My  Tho,  a  Hué,  in  trentacinque  capoluoghi  del
          Vietnam. Quanto a Saigon, l’intero quartiere di Cholon era in mano vietcong, e buona

          parte di Gia Dinh, di Phu Tho. All’aeroporto di Than Son Nhut nessun aereo poteva
          atterrare. Le riprese televisive mostravano strade ridotte a cumuli di macerie, edifici
          in fiamme, mucchi di cadaveri intrisi di sangue, pagode completamente distrutte. E la
          fotografia più atroce mi riportava qualcuno che conoscevo assai bene: il generale
          Loan ritratto nel gesto di ammazzare un vietcong con le mani legate.

               Anzi non era una sola fotografia, era una sequenza di tre fotografie. Nella prima
          si vedeva il vietcong, un giovane coi pantaloni corti e la camicia a quadri, spinto da
          un Marine americano che gli sussurrava chissà cosa come ad incoraggiarlo. Nella
          seconda si vedeva Loan che puntava la rivoltella e sparava a bruciapelo nella tempia
          destra  del  vietcong.  Era  stata  scattata  proprio  nell’attimo  in  cui  il  proiettile
          penetrava  il  cervello  e  il  vietcong  chiudeva  gli  occhi,  piegava  le  labbra  in  una

          smorfia  dolorosa.  Nella  terza  si  vedeva  Loan  che  riponeva  la  rivoltella  e  si
          allontanava  lasciando  il  vietcong  riverso  sull’asfalto:  un  piede  nudo  alzato
          nell’ultimo sussulto. Loan e le sue rose, una perla di rugiada sul petalo di ciascuna
          rosa.  Loan  e  il  suo  pianoforte,  i  suoi  notturni  di  Chopin.  Loan  e  la  sua  poesia
          incorniciata:  «Cresci  placidamente  nel  rumore  degli  altri,  esponi  la  tua  verità  in
          modo  quieto  e  tranquillo…».  Ma  come  avevo  fatto  a  sperare  che  un  giorno  egli
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