Page 47 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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potrebbero  stare  a  Londra  o  a  Parigi:  invece  bestemmiano  e  rimangono  qui. Altri

          sono reporter improvvisati, nessuno li voleva mandare: ma hanno supplicato o sono
          venuti da sé, a loro spese. Cosa cercano, dimmi. Uno scopo che non avevano prima?
          Un  brivido  che  li  scuota  dalla  noia?  Una  pallottola  che  risolva  un  loro  dolore?
          Un’imitazione  di  Hemingway?  Ho  tentato  un’indagine,  uno  ha  risposto:  «Voglio
          dimostrare a mio padre di non essere il cretino che dice». Un altro ha risposto: «Mia
          moglie ha divorziato». Un altro ha risposto: «È eccitante e, se fai la foto giusta, sei a

          posto per sempre». Quasi nessuno m’ha dato la sola ragione che a me sembra valida:
          «Sono qui per capire».
               Io sono  qui  per  capire,  per  sapere  cosa  pensa  un  uomo  che  ammazza  un  altro
          uomo che a sua volta lo ammazza: senza conoscerlo. Sono qui per provare qualcosa
          a cui credo: che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della
          razza terrestre. Sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo quando si esalta su

          un siero che curerà il cancro, o sull’operazione chirurgica che sostituisce un cuore
          con  un  altro  cuore:  mentre  migliaia  di  creature  giovani  e  sane,  senza  cancro,  col
          cuore a posto, vanno a morire come animali, vacche al macello. C’è la guerra da tre
          anni in  Vietnam e la gente che piange su  Washkansky dice: «Uh, che noia».  Ci si
          massacra da venti giorni a Dak To, e la gente che prega sorride: «Davvero?». Dak

          To è un villaggio situato a dieci miglia dal confine col Laos e la Cambogia, proprio
          dove sbocca la pista Ho Chi Minh: vale a dire la strada da cui arrivano i rifornimenti
          di  Hanoi  alle  formazioni  vietcong  e  alle  truppe  nordvietnamite  infiltrate  nel  Sud.
          Verso la fine di ottobre a Dak To c’era solo un battaglione di americani con una base
          aerea, minuscola. Poi un disertore nordvietnamita rivelò che i suoi compagni erano
          riusciti  ad  ammassare  sulle  colline  intorno  a  Dak  To  ben  settemila  soldati  e  con
          questi  si  accingevano  a  sferrare  l’attacco.  Il  generale  Westmoreland  reagì
          concentrando diecimila fra paracadutisti e soldati, il primo novembre ebbe inizio la

          più sanguinosa battaglia combattuta fin oggi in  Vietnam. A  Saigon si dice: «O gli
          americani vincono entro sette giorni o Dak To diviene la loro Dien Bien Phu». Non è
          facile obbedire al consiglio che un amico della France Presse, François Pelou, mi ha
          lasciato in albergo con un bigliettino: «N’aie pas peur».


          LUNEDÌ NOTTE. Invece è facile. La paura ti passa, di colpo, con la paura degli altri.
          L’elicottero su cui siamo saliti alla base di Pleiku, ultima tappa prima di Dak To, ha

          posto per quattro persone oltre i due piloti e i due mitraglieri. Uno dei quattro è un
          telecronista appena giunto da New York. Il suo viso ha il colore del gesso, il suo
          corpo è scosso da un tremito convulso, e tutte le sue dieci dita sono ficcate dentro la
          bocca dove tutti i suoi trentadue denti le mordono furiosamente. Dopo pochi minuti si
          alza, batte alle spalle di un pilota, lo scongiura invano di tornare indietro, e provi
          tanta vergogna per lui che di colpo sei un’altra persona. Tranquilla, lucida, con ogni
          tuo nervo pronto a scattare per salvarti la pelle. Puoi perfino osservare con curiosità

          le  colline  a  sinistra  da  cui  si  alzano  fumate  nere,  il  napalm  che  gli  americani
          sganciano sui nordvietnamiti, poi le colline a destra da cui si alzano fumate bianche,
          le bombe che i nordvietnamiti lanciano sugli americani: ben consapevole che ci stai
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