Page 52 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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riuscisse a piangere? E come faceva François ad accettarlo su un piano umano? E
quali altre infamie, quali altri eroismi, bruciavano nella nuova tragedia il Vietnam?
La noia divenne impazienza. Non appena ebbi ottenuto il visto, le carte
necessarie, saltai sul primo aereo diretto a Bangkok via Hong Kong. Non portavo
con me che una borsa, una macchina fotografica, un magnetofono, e una bottiglia di
Chianti. 10
MERCOLEDÌ, 7 FEBBRAIO. Sono tornata a Saigon con un aereo militare via Bangkok.
Non c’è altro mezzo da quando la città è in stato di assedio: l’aeroporto di Tan Son
Nhat è chiuso al traffico civile dall’alba del 31 gennaio e i combattimenti vi
infuriano intorno, di giorno gli americani respingono verso la campagna i vietcong e
di notte i vietcong riacquistano le posizioni perdute. Ostinatamente, disperatamente.
Non è stato facile infatti neanche scendere a Tan Son Nhat: il fuoco dell’artiglieria
era così intenso che il comandante non osava atterrare, ha volato sopra l’aeroporto
per circa quaranta minuti. Una volta atterrati, abbiamo dovuto attraversare la pista
correndo: la sparatoria era vicina, dal cancello sud-ovest dell’aeroporto si alzavano
fumate nere. Ci siamo rifugiati dentro una baracca piena di soldati. I soldati avevano
un’aria stanca, spaurita, e l’ufficiale è parso molto sorpreso quando gli ho detto che
volevo entrare subito in città. La strada che da Tan Son Nhat porta al centro della
città si snoda lungo i quartieri dove sono annidati i vietcong, poche ore prima una
jeep di americani era saltata in aria per una granata. Convincerlo a darmi una
camionetta è stato tutt’altro che facile, il sergente che mi accompagnava insieme a
una scorta armata aveva l’aria di odiarmi.
Quando gli ho chiesto, tentando lo scherzo, se saremmo arrivati, ha risposto cupo
«Speriamo» e ha lanciato una bestemmia terribile. Siamo arrivati. Ma è stato un
viaggio assai lungo, malgrado sia durato solo venti minuti. La strada era vuota
fuorché per pochi camion militari che la percorrevano a velocità pazza. Entrando nel
centro di Saigon ho provato un grande sollievo. Anzi, una felicità. L’autista invece ha
detto, con un tono di rimprovero: «E ora noi dobbiamo tornare indietro».
Saigon è irriconoscibile. Perfino qui al centro dove non c’è distruzione. Il
coprifuoco incomincia alle due del pomeriggio e tutti i negozi sono chiusi, le finestre
sbarrate: diresti che la gente ha paura di affacciarsi, di scorgere il sole. Nelle strade
dove non cammina nessuno passano solo gli automezzi militari con le mitraglie
puntate, pronte a sparare. A volte transita qualche convoglio, qualche carro armato, e
il rumore dei cingoli che spaccano l’asfalto è il solo rumore che giunga ai tuoi
orecchi insieme al rombo dei caccia, allo scoppiettare degli elicotteri, all’esplodere
delle cannonate: si bombardano zone a neanche dieci minuti da qui. Sparita
quell’atmosfera vivace che rendeva Saigon un’oasi di compromesso, di vita, un
fortino pressoché inattaccabile, qui siamo ormai in prima linea. Ogni incrocio è
interrotto da barricate di filo spinato e le sentinelle sparano a vista su tutto ciò che si
muove.
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