Page 76 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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incredula. «Vuoi dire che in Italia sanno di noi?!» «Certo, Abu Asham.» Balzò in
piedi e svegliò gli altri: «Qoom, qoom! Alzati, alzati!». Gli altri si alzarono, svelti,
afferrando il fucile, ma quando seppero di che si trattava tornarono brontolando a
dormire. Solo tre lo seguirono, acconciandosi il kassiah, e si misero a chiedere
qualcosa ad Abu Asham. «Cosa vogliono, Abu Asham?» Indicò Moroldo: «Voglion
sapere perché tuo marito ti porta in un posto così pericoloso di notte». «Digli che
non è mio marito.» «Non è tuo marito?!» «No. Viaggiamo insieme perché lavoriamo
insieme, io scrivo e lui fa le fotografie.» «Non è possibile.» «Sì, che è possibile.»
«Non sta bene.» «Come non sta bene?» Gli altri gli tiravan la manica, impazienti
d’aver la risposta. Abu Asham gliela dette e i loro occhi si spalancarono increduli:
«La?!? No?!?». Ci fissarono un poco, una fila di occhi affogati tra le pieghe del
kassiah, poi si alzarono e tornarono zitti a dormire.
[…] I cani eran tornati ad abbaiare, sull’aia c’era un gran scalpiccio e qualcuno
s’era messo alla mitraglia antiaerea che puntava le canne verso il cielo. Ma presto il
ronzio dei ricognitori sparì e Abu Asham riaccese il lume a petrolio. La fiammella si
alzò illuminando un giovanotto che prima non c’era.
Era un giovanotto di circa trent’anni, vestito in uniforme. Le braccia conserte, le
gambe incrociate, ci osservava senza cordialità alzando un volto che ricordava
straordinariamente l’attore Omar Sharif: baffoni neri, naso imperioso, pelle scura e
occhi intensi, sporgenti. Con voce gelida chiese ad Abu Abed di mostrare i fogli del
lasciapassare, li lesse e su quello firmato da Abu Lotuf sorrise un sorriso di denti
bellissimi e bianchi, poi parlò in inglese. «Benvenuti alla mia base, sono il
comandante Abu Mazim. Significa Pioggia, credo, Fertilità… Avete mangiato? No
certo. E un palestinese non ammette di ricevere ospiti senza farli mangiare.» Mosse
una mano lunga, delicata, da pianista. Subito due fidayn arrivarono col cibo che,
mentre interrogavo Abu Asham, avevan preparato per noi. Melanzane fritte, fagioli
lessi, insalata di pomodori e di porri, montone arrostito e pane arabo: quello
schiacciato, a frittella. Il cibo era contenuto in scodelle di latta e le scodelle furono
poste per terra insieme a bicchieri di tè dolcissimo e caldo. Abu Mazim fu il primo a
infilare le dita tra i fagioli. Poiché esitavo, ironizzò: «Qui non esiston forchette, si
mangia con le mani. Ha mai mangiato insieme a… Come ci chiaman da voi?
Terroristi, mi pare. Ha mai mangiato insieme a dei terroristi?». «Molti anni fa, Abu
Mazim. Da bambina, in Italia. Quando combattevamo i tedeschi.» La risposta gli
piacque, farlo parlare non fu difficile. Come condizione pose soltanto di esprimersi
in arabo perché tutti ascoltassero. Ormai l’intera base s’era svegliata e i fidayn
gremivano il pianerottolo in file concentriche, irte di fucili e luccicanti di occhi. Non
vedevi che gli occhi, su quei volti imbacuccati dal kassiah, e per mangiare
abbassavano appena un lembo di stoffa che subito ritiravano su. «Posso chiederle
qualsiasi cosa, Abu Mazim?» «Sì, meno l’ubicazione di questa base. In fondo c’è
poco che lei potrebbe svelare al signor Moshe Dayan e che il signor Moshe Dayan
non conosca già, grazie alle sue spie.» «Moshe Dayan non vi stima molto. Dice che
non può gratificarvi col nome di guerriglieri. Dice: non sono degni d’essere
paragonati ai vietcong, non valgono nulla.» Restò impassibile. «Moshe Dayan mente