Page 78 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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le due del mattino e per me incominciava la notte più lunga di quel viaggio ai confini

          di una tragedia che è anche un dramma della nostra coscienza.            15


          La prima impressione fu di trovarci in un luogo assai più insidioso, e più esposto.
          Compresi  presto  perché.  Le  luci  di  Gerico  ci  investivano  di  nuovo  insieme  al
          profumo dei gelsomini: il gigante ci aveva riportato indietro, verso il ponte Allenby,
          e non eravamo più sulla sponda del Mar Morto ma sul fiume Giordano. Gli israeliani

          insomma qui ce li avevamo a ridosso: con un paio di cannocchiali avremmo potuto
          vedere le loro pattuglie, le loro mitraglie puntate. Ciò che non compresi fu perché il
          gigante avesse deciso di farci passare la notte proprio lì. Un eccesso di stima? Una
          sfida? Ricordavo infatti che all’altra base c’era stato uno scambio di frasi in arabo
          tra  lui  e  Abu  Abed,  e  Abu  Abed  aveva  ripetuto  più  volte  la  parola  «Vietnam»:
          evidentemente a spiegargli che essendo stati in Vietnam eravamo abituati a un certo
          rischio e alle cattive sorprese. Imprecando mi dissi coraggio, poi passai a esaminare

          il posto dove mi trovavo.
              Mi trovavo dentro un boschetto di palme e banani che nascondevano un edificio a
          un piano: forse l’avanzo di una piccola scuola, forse un ex magazzino, o forse una ex
          fattoria. Intorno ci girava come una veranda, coperta da una tettoia massiccia, e qui

          si  aprivano  le  porte,  qui  era  collocata  la  mitraglia  antiaerea.  Due  sentinelle  in
          uniforme  e  imbacuccate  nel  solito  kassiah  sorvegliavano  l’unica  strada  per  cui  si
          arrivava, una terza teneva d’occhio il boschetto. Quando giunse il gigante scattarono
          e ci immisero dentro una stanza illuminata da un lume a petrolio. Nella stanza c’era
          un  tavolaccio,  due  panche,  una  lavagna,  una  carta  geografica  della  Palestina,  una
          specie di libreria e un bauletto. Con gesti educati ma autoritari il gigante ci ordinò di
          sedere, poi sedette a sua volta, di faccia, si tolse con lentezza esasperata il kassiah,
          appoggiò sul tavolo due mani da strangolatore, e restò lì a farsi osservare. Era la

          maschera stessa dell’intelligenza crudele, della determinazione senza pietà. Sotto la
          fronte stempiata e incisa di rughe dove si annidava la polvere, gli occhi bucavano
          come aghi fatti per ferire; sotto i baffi ispidi, pesi, la bocca si serrava come una
          forbice  ansiosa  di  tagliare.  La  barba  non  rasata  da  giorni  copriva  le  guance
          grassocce  d’un  velo  nero,  cattivo,  e  quando  le  labbra  si  schiusero  anche  i  denti

          apparvero neri: quasi li avesse macchiati masticando betel. Le labbra si schiusero
          per lasciar filtrare una voce bassa, allo stesso tempo arrogante e monotona. Con tal
          voce  disse:  «Mi  chiamo Abu  Kalid.  Dirigo  tutte  le  basi  lungo  il  Giordano».  Era
          l’uomo  da  cui  dipendevano  i  quarantaduemila  fidayn  che  ogni  notte  passavano  il
          fiume per andar forse a morire.
               Due  stavano  qui,  alle  mie  spalle.  Avevano  oltrepassato  la  soglia  con  la

          leggerezza di un gatto ed ora mi accorgevo di loro perché Abu Kalid li guardava:
          tenendoli  sospesi  in  attesa  di  un’approvazione  che  tardava  a  venire.  Infine  egli
          sussurrò: «La». Cioè: no. E aggiunse qualcosa in arabo, mi parve due nomi. I due
          andarono via senza battere ciglio, e presto altri due entrarono. Avranno avuto sì e no
          diciott’anni e ti colpivano per una certa fragilità: spalle magre, torace stretto, collo
          smilzo. Sai, il tipo che passa bene dentro i tunnel di filo spinato, largo appena mezzo
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