Page 83 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Gerusalemme, forse trentasei, forse quaranta, forse quarantacinque anni
fa, che la sua famiglia era nobile e che la sua giovinezza fu agiata: suo
padre possedeva un’antica ricchezza che le con sche non avevano troppo
intaccato. Tali con sche, avvenute nel corso di un secolo e mezzo, eran
state imposte dagli egiziani su certi latifondi e su certi immobili al centro
del Cairo. E poi? Vediamo: poi, nel 1947, Yassir aveva combattuto contro
gli ebrei che davano vita a Israele e s’era iscritto all’università del Cairo
per studiare ingegneria. In quegli anni aveva anche fondato
l’Associazione studenti palestinesi, la stessa da cui sarebbe orito il nucleo
di Al Fatah. Ottenuta la laurea, era andato a lavorare nel Kuwait e qui
aveva fondato un giornale che incitava alla lotta nazionalista, era entrato
a far parte di un gruppo detto Fratelli mussulmani. Nel 1955 era rientrato
in Egitto per frequentare un corso di u ciali e specializzarsi in esplosivi,
nel 1965 aveva contribuito in modo speciale alla nascita di Al Fatah
assumendo il nome di Abu Animar, cioè Colui che Costruisce, Padre
Costruttore. Nel 1967 era stato eletto presidente dell’OLP, Organizzazione
di liberazione palestinese, movimento di cui fanno ormai parte i membri
di Al Fatah, del Fronte Popolare, di Al Saiqa, eccetera; solo recentemente
era stato scelto come portavoce di Al Fatah, suo messaggero. Ma a questo
punto, se chiedevi perché, allargavan le braccia e rispondevano «boh,
qualcuno doveva pur farlo, uno o l’altro non fa di erenza». Della sua vita
privata non ti dicevano nulla fuorché il particolare che non ha nemmeno
una casa. Ed è vero: quando non abita in quella del fratello, ad Amman,
dorme nelle basi o dove gli capita. È anche vero che non è sposato: non
gli si conoscono donne e, malgrado il pettegolezzo di un suo platonico
irt con una scrittrice ebrea che ha abbracciato la causa araba, sembra
che possa farne benissimo a meno. Niente di più.
La mia opinione è che, salvo particolari utili a correggere le inesattezze,
non vi sia altro da dire. Quando un uomo ha un passato clamoroso lo
senti anche se lo nasconde: perché il passato resta scritto sul volto, negli
occhi. Sul volto di Arafat, invece, non trovi che quella maschera
impostagli da madre natura: non da esperienze pagate. V’è qualcosa di
verde in lui, di non ancora fatto. Se ci pensi bene, del resto, ti accorgi che
la sua fama esplose più per la stampa che per le sue gesta: dall’ombra lo
tirarono fuori i giornalisti occidentali e in particolare americani, sempre
bravissimi nell’inventar personaggi o montarli: basti pensare ai bonzi del
Vietnam, al venerabile Tri Quang. I bonzi non rappresentarono mai la
realtà vietnamita e Tri Quang non fu mai un padre della patria: ma «Time
magazine» lo mise in copertina (come ha messo Arafat), e da allora tutti
ci occupammo istericamente di lui: ci volle l’o ensiva del Tet per
ridimensionare Tri Quang e relegarlo nel dimenticatoio. Arafat, siamo