Page 84 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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onesti,  non  è  Tri  Quang:  della  resistenza  palestinese  egli  è  davvero  un
          arte ce,  un  combattente  coraggioso,  uno  stratega  intelligente.  La

          battaglia  che  i   dayn  combatterono  contro  gli  israeliani  lo  scorso
          gennaio,  nella  vallata  di  El  Salì,  a   anco  dei  sauditi,  egli  la  diresse
          davvero  e  la  vinse;  a  Mosca  e  a  Rabat  egli  ci  andò  davvero,  sia  pure
          insieme  con  altri  di  cui  nessuno  parla,  ed  ebbe  successo.  Ma  ciò  non
          signi ca  che  egli  sia  il  cervello  di  Al  Fatah,  il  leader  dei  palestinesi  in

          guerra. Tale attributo glielo abbiamo dato noi: in questa tragedia egli non
          è un Ho Chi Minh. È, al massimo, un probabile generale Giap del futuro.
          Allora  perché  i  palestinesi  esibiscono  lui  e  non  altri?  Perché,  ovvio,  il

          personaggio  è  ormai  servito  su  un  piatto  d’argento  e  gli  serve.  Pei
          giornali. Pei distratti.
             Pei semplici. Per le masse che  niscono sempre con l’invocare un eroe,
          un simbolo vivente. Non solo nelle basi di Al Fatah io ho trovato scritte di
          Arafat,  ma  nei  campi  di  addestramento,  nelle  case  dei  profughi,  nelle

          scuole dove i bambini ti mostrano la sua fotogra a autografata dicendo:
          «Me l’ha data Arafat! Voglio diventare come Arafat!».
             Quelli di Al Fatah, non c’è dubbio, lo adorano. Non ho mai trovato, fra

          loro,  qualcuno  che  mi  parlasse  senza  venerazione  di  lui;  per no
          l’accompagnatore che faceva da interprete, tipo smaliziato e nient’a atto
          fanatico,  mi  sussurrò:  «Creda,  è  un  uomo  d’oro.  Perché  non  solo  è
          coraggioso e sincero, è anche buono. Dovrebbe vederlo quando si presenta
          in una famiglia per annunciare la morte di un  dayn. Piange con loro».

          Quelli delle altre organizzazioni, invece, lo detestano. Magari per gelosia,
          o per invidia, o per il fatto che vien giudicato uomo di destra, in rapporti
          troppo  amichevoli  con  gli  sceicchi  del  Kuwait  che   nanziano  Al  Fatah:

          quando dici il nome Arafat, fanno sempre una smor a. «Ma chi è, cosa
          vuole, che conta. Col tono di minimizzarsi non pensa che a farsi reclame,
          l’ipocrita. E poi la gente seria non va in giro con gli occhiali neri.» Che
          siano  occhiali  da  vista,  suggerisci.  «No,  no:  gliel’ho  chiesto.  Ci  vede
          benissimo. Li porta per esser notato, per distinguersi insomma.»

             Chi ha ragione non so. Però so che, fra tutti i palestinesi incontrati per
          questo  reportage,  Arafat  è  quello  che  mi  ha  impressionato  meno.
          Anzitutto  per  il  silenzioso  ri uto  che  oppone  a  chi  tenti  con  lui  un

          approccio  umano:  la  sua  cordialità  è  super ciale,  la  sua  gentilezza  è
          formale,  e  un  nulla  basta  a  renderlo  ostile,  freddo,  distante,  sicché  si
          scalda solo quando si arrabbia, e la vocina diventa un vocione, le macchie
          d’inchiostro  che  sono  i  suoi  occhi  diventano  polle  di  odio.  Poi,  per  la
          mancanza  di  originalità  e  di  seduzione  che  caratterizza  tutte  le  sue

          risposte. A mio parere, in un’intervista, non sono le domande che contano
          ma  le  risposte.  Se  una  persona  ha  talento,  puoi  chiederle  la  cosa  più
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