Page 82 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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quale guardia del corpo. Il più bel giovanotto che avessi mai visto. Alto,
          snello, elegante, sai il tipo che indossa la tuta mimetizzata come se fosse

          un frac, e con un viso scavato: da rubacuori occidentale. Forse perché era
          biondo,  con  gli  occhi  azzurri,  mi  venne  spontaneo  pensare  che  fosse
          occidentale  anzi  tedesco.  O  forse  perché  esibiva  un  distacco  così  gelido,
          così controllato, del tutto immune dal calore mediterraneo che distingue i
           dayn.  Oltre  a  costui,  che  presto  girò  sui  tacchi  e  scomparve,  c’era  un

          omone in borghese che ti sbirciava brutto e col tono di dire: tocca il mio
          capo e ti riduco a mo’ di un colabrodo.
             In ne c’erano l’accompagnatore che avrebbe fatto da interprete e Abu

          George: incaricato di scrivere domande e risposte onde controllarle poi col
          mio  testo.  Questi  ultimi  due  ci  seguirono  nella  stanza  scelta  per
          l’intervista. Nella stanza c’erano alcune sedie e una scrivania. Arafat posò
          sulla scrivania il fucile mitragliatore e si sedette con un sorriso di denti
          bianchi, aguzzi come i denti di un lupo. Sulla sua giacca a vento, in tela

          grigioverde,  spiccava  un  distintivo  con  due  Marine  del  Vietnam  e  la
          scritta «Black Panthers against American Fascism, le Pantere Nere contro
          il fascismo americano».

             Glielo  avevano  dato  due  ragazzuoli  della  California  che  si  de nivano
          americo-marxisti  e  che  eran  venuti  col  pretesto  di  o rirgli  l’alleanza  di
          Rap  Brown,  in  realtà  per  fare  un   lmetto  e  ricavarci  quattrini.  Glielo
          dissi. Il mio giudizio lo toccò senza offenderlo.
             L’atmosfera  era  rilassata,  cordiale,  e  priva  di  promesse.  Un’intervista

          con  Arafat  serve  più  che  altro  ad  esaudire  un  interesse  curioso,  mai  ad
          ottenere  risposte  memorabili  o  informazioni  su  lui.  L’uomo  più  celebre
          della resistenza palestinese è infatti anche il più misterioso. La cortina di

          silenzio che circonda la sua vita è così  tta da chiederci se non costituisca
          un’astuzia per incrementarne la pubblicità, una civetteria per renderlo più
          prezioso. Per no ottenere un colloquio con lui è di cilissimo: col pretesto
          che  egli  si  trova  sempre  in  viaggio,  ora  al  Cairo  e  ora  a  Rabat,  ora  al
          Libano e ora in Arabia Saudita, ora a Mosca e ora a Damasco, te lo fanno

          sospirare per giorni, per settimane, e se poi te lo danno è con l’aria di
          regalarti  un  privilegio  speciale  o  un’esclusiva  di  cui  non  sei  degno.  Nel
          frattempo tu cerchi, ovvio, di raccoglier notizie. Sul suo carattere, sul suo

          passato. Ma, a chiunque tu ti rivolga, trovi un imbarazzato mutismo: solo
          in parte giusti cato dal fatto che Al Fatah mantiene sui suoi capi il più
           tto segreto e non ne fornisce mai la biogra a. Con denze sottobanco ti
          sussurreranno che non è comunista, che non lo sarebbe mai neanche se a
          indottrinarlo  fosse  Mao  Tse-tung  in  persona:  si  tratta  di  un  militare,

          ripetono, di un patriota, non di un ideologo.
             Indiscrezioni  ormai  di use  ti  confermeranno  che  nacque  a
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