Page 79 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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chiedeva lui a un  dayn? «Il coraggio: bisogna che sia un uomo pronto a
          morire. Poi l’intelligenza e un po’ di cultura: un ignorante o un cretino va

          bene per l’esercito dove è carne da cannone, non va bene qui dove per
          sopravvivere bisogna usare il cervello.» E ne morivano molti, pur usando
          il cervello?
             «Un  mese  fa  ce  ne  ammazzarono  otto:  l’intera  pattuglia.  Li
          circondarono  a  far  poco  in  tremila…  La  scorsa  settimana,  a  venti

          chilometri  da  qui,  ce  ne  catturarono  sei.  Anche  lì  l’intera  pattuglia.
          Nell’ultima operazione partimmo in diciotto e tornammo in dieci. Ma cito
          gli esempi peggiori: il più delle volte torniamo indietro. Al massimo con

          un ferito o due. Passar dall’altra parte è di cile, però meno di quanto si
          creda.  A  neutralizzare  lo  sbarramento  fotoelettrico  ormai  abbiamo
          imparato: è uno scherzo. Quanto alle mine, conosciamo tutte le possibili
          combinazioni: quasi sempre le evitiamo. Conosciamo anche il trucco del
          disco:  mettono  in  azione  un  disco  che  ripete:  “Attenzione,  ti  abbiamo

          visto, getta le armi”, e poi sparano dalla parte opposta a quella da cui
          viene la voce. Il pericolo grosso viene dopo l’attacco, quando si alzano gli
          elicotteri e gli aerei. Così bisogna non tornare subito indietro, evitare il

          sistema  dell’attacca  e  fuggi.  Bisogna  farci  coraggio  e  addentrarci,  per
          trovare  rifugio  nel  primo  centro  abitato.»  «Abu  Mohammed,  e  per
          ripassare le linee e tornar qui?» «Oh, quello è semplice. Ciò che accadde a
          me fu dovuto a disgrazia. Ma non posso dirle come rientriamo.»
             Poi uscimmo in giro per la base, circondati dai  dayn che mi  ssavano

          come un anno prima mi avevano  ssato i bambini di Hanoi. Chi è? Cosa
          vuole? È una donna!
             Due  specialmente,  tarchiati,  bruttini:  mi  indicavano  col  mitra,  si

          tiravano  di  gomito,  ridacchiavano  confusi  nascondendosi  l’uno  dietro  le
          spalle dell’altro. Finché li presi da parte e gli chiesi: «Siete molto amici,
          voi  due,  non  è  vero?»  E  loro  dondolarono  su  e  giù,  imbarazzati,  poi
          risposero  in  coro:  «Siamo  fratelli».  Allora  li  interrogai  e  mi  dissero  di
          chiamarsi Nizar e Rafat, il primo di venti e il secondo di sedici anni. E mi

          dissero d’esser due contadini di Gaza,  gli di un uomo morto combattendo
          contro gli ebrei nel 1948. Il primo a diventar  dayn era stato Nizar, che
          subito aveva pensato di portarci Rafat ma gli era venuto quel problema di

          coscienza,  durato  sei  mesi:  e  se  poi  mi  muore?  Ma  l’aveva  superato
          pensando  «meglio  un  fratello  morto  che  un  fratello  senza  dignità»,  e
          ormai  Rafat  era  lì  da  ben  diciotto  mesi.  «Venni  a  quattordici  anni  e
          mezzo, mi spiego?» «Già, e non avevi paura, Rafat?» «Oh, sì! Tanta, sai,
          tanta!  Ma  ora  no.»  «Quante  volte  hai  passato  le  linee,  Rafat?»

          «Ventiquattro.  Però  mai  con  Nizar.  Non  vogliono  mandarci  insieme,
          temono che ci si preoccupi troppo di darci una mano.» «È questo che ti
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