Page 74 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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di  tenervi  qui.»  «Sono  già  venuti  gli  aerei,  Abu  Kalid.»  «Ah,  sì?»  «Abu
          Kalid, cosa è successo stanotte?» «Tutte le notti succede qualcosa.» Più che

          malumore  il  suo  era  forse  una  pena  repressa:  e  questa  impediva  ogni
          domanda, ogni curiosità. Soprattutto la curiosità su due ragazzi che non
          erano  tornati  e  che  non  sarebbero  tornati  mai  più.  «Mangiamo.  Tè  o
          caffè?»
             Il cibo arrivò in scodelle di latta come la sera avanti alla base di Abu

          Mazim. Fave bollite, formaggio di capra, salsicce, pane, tè e ca è. Cinque
          fidayn si unirono a noi.
             Uno  era  un  ex  imbianchino,  tre  eran  studenti,  un  quinto  allargò  le

          braccia come a dire che non era nulla fuorché un  dayn. Una settimana
          dopo  lo  avremmo  trovato  che  passeggiava  per  il  mercato  di  Amman,
          evidentemente in licenza. «E di giorno che fate?»
             «Ciò  che  fanno  i  soldati.  Ci  si  allena,  ci  si  annoia,  e  a  volte  si  va  in
          azione. Ma solo se c’è nebbia e piove, per nasconderci un po’.» Abu Kalid

          ascoltava  zitto  ma  buttava  in  bocca  le  fave  con  gesti  secchi  e  nervosi,
          quasi che l’impazienza di vederci partire avesse incrinato l’armatura della
          sua  impassibilità.  «Ho  letto  le  sue  poesie,  Abu  Kalid.»  «Grazie.»  «Ne  ho

          anche copiate tre.» «Grazie.» «Posso pubblicarle?» «Certo.»
             D’un tratto, senza nessuna ragione fuorché il bisogno di scaricare una
          rabbia,  suppongo,  disse  che  la  settimana  avanti  avevan  catturato  un
          prigioniero. «Catturato e ucciso.»
             «Ucciso?»  «Sì.  Non  voleva  seguirci,  si  dibatteva,  e  non  potevamo

          portarcelo a spalla per quindici miglia  no alle linee. Siamo stati costretti
          a ucciderlo. Lo dica, lo scriva.»
             «Perché, Abu Kalid?» «Perché i sionisti sappiano che, se non ci seguono

          quando li catturiamo, noi li uccidiamo. Se invece ci seguono senza darci
          problemi, ci impegniamo a non fargli nulla. Abbiamo troppo bisogno di
          prigionieri da scambiare coi nostri prigionieri.» «Brutta storia, Abu Kalid.»
          «Brutta?» «Sì, Abu Kalid. Non si uccidono i prigionieri.»
             Allora si arrabbiò. Disse che quella era una guerra di liberazione, una

          rivoluzione,  e  non  ammetteva  sciocche  ipocrisie.  Disse  che  in  Israele  i
          prigionieri  venivan  torturati  con  le  scariche  elettriche,  gli  asciugamani
          bagnati come in Vietnam, che dagli interrogatori uscivano mutilati, dalle

          celle uscivano morti: perché uno dei loro doveva esser risparmiato? Disse
          che  quel  prigioniero  non  lo  avevano  ucciso  i   dayn,  lo  aveva  ucciso
          l’imperialismo, il capitalismo: la colpa era solo della borghesia capitalista
          che dopo aver perseguitato gli ebrei si serviva di essi, e dominava paesi
          come il mio.

             Sicché  combattendo  per  la  Palestina  i   dayn  combattevano  per
          l’umanità,  e  per  l’Italia  dove  la  gente  moriva  di  fame  come  in  India:
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