Page 73 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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per orire in un sudore ghiaccio. Mi distesi per terra, sulla coperta.
Bisognava rassegnarsi, calmarsi: non c’era nulla da fare. Solo sperare che
andasse bene, mentre lui tornava, spietato, ma con un po’ di sforzo ti ci
abituavi, potevi per no sollevare il coperchio di questo bauletto e
guardare cosa conteneva, accorgerti che conteneva esplosivo, pensare,
oddio, se casca una bomba speriamo non caschi proprio sull’esplosivo, e
nalmente cedere al sonno, alla tensione, chiudere gli occhi e
addormentarsi ascoltando uno scoppio lontano, poi uno vicino, poi il
silenzio liberatore.
L’alba mi colse con un fascio di luce che entrava da una nestra priva
di vetri.
Saltai in piedi con la sveltezza che ti dà solo la gioia di saperti viva,
aprii la porta e, dalla maniglia allo stipite, si tendeva uno stranissimo
filo: sottile come un capello.
L’avevan ssato in modo che si rompesse solo se uscivo: non si davan
di me. «May I get out?» chiesi alla sentinella. Capì, annuì. Nel boschetto i
dayn stavan pulendo le armi, uno mi indicò il ruscello: «Wash?
Lavare?». Raggiunsi il ruscello dove quattro ragazzi si stavan bagnando.
Arrossendo fuggirono in risatine nervose. L’acqua era gelida, buona:
puliva l’angoscia di una notte assai dura. Ma cos’era successo in realtà:
quei due erano morti davvero? Tornai verso il dayn che m’aveva
indicato il ruscello, gli sedetti accanto pensando che era proprio un
bambino e non si mandano i bambini a morire. «Speak English?» gli
chiesi. «Little, poco» rispose. «Last night, israeli planes… Bombing? La
notte scorsa, gli aerei israeliani… Le bombe?…» «Na’am, yes!
Always, sempre.» «And comrades… Friends… Two, those two back? E i
compagni, gli amici, quei due… Sono tornati quei due?» Strinse la bocca e
gli occhi gli si fecero grandi, grandi. Chinò la fronte, gorgogliò: «La, no.
No come back. Never come back.
Non sono tornati. Non torneranno più».
Visto di giorno aveva l’aria di un rifugio assai stabile, certo non di una
base messa su per quindici o venti giorni. Sui muri v’erano scritte in
arabo, Abu Abed me le tradusse e dicevano: «Gli schiavi non combattono.
(Arafat)». «Il suolo non parte ma gli invasori sì. (Arafat)». «Il lavoro politico
non è una lezione, è un comportamento rivoluzionario. (Abu Kalid)». «Io
muoio, lasciami. Salva il mio fratello ferito. (Un dayn)». Nella veranda c’era
un tavolo per mangiare e, in un bugigattolo, c’era una cucina vera e
propria: coi pentoli. Apparve Abu Kalid, nuovamente coperto dal kassiah,
e il suo sguardo era evasivo, la sua voce denunciava il malumore.
«Buongiorno. Entro le sette e mezzo, le otto, dovete partire. Gli aerei
bombardano di solito a quell’ora e non voglio assumermi la responsabilità