Page 71 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Navajos,  ai  Comanci.  E  chiamaste  quella  terra  col  nome  di  America  e
          metteste  gli  Apaches  nei  musei.  Ma  la  tragedia  degli  Apaches  non  si

          ripeterà  in  Palestina,  nei  musei  noi  non  ci   niremo.  Non  farete  i   lm
          western  con  noi,  non  ci  chiuderete  nelle  riserve  di   lo  spinato.  Perché
          anche se siamo poveri com’erano loro, spesso ignoranti com’erano loro,
          abbiamo  alle  spalle  una  civiltà,  una  cultura,  e  un  vantaggio:  noi  vi
          conosciamo.

             Gli  Apaches,  i  Navajos,  i  Comanci  non  vi  avevano  mai  visti:  noi  vi
          abbiamo  incontrato  assai  spesso  nel  corso  dei  secoli.  Sappiamo
          affrontarvi. E…»

             Fu allora che esplose il primo boato. E subito dopo il secondo. E, spento
          l’eco  del  secondo,  l’aria  fu  lacerata  dal  martellare  di  una  mitraglia
          pesante. Due raffiche, lunghe.
             Ta-ta-ta-ta-ta,  ta-ta-ta-ta-ta!  E  Abu  Kalid  rizzò  il  capo  e  spalancò  gli
          occhi e capì. E capii anch’io, capirono tutti. E tutti insieme ci alzammo,

          uscimmo  sulla  veranda  dove  cinque  o  sei   dayn  erano  accorsi,
          ansimando, e Abu Abed balbettò: «Cos’era?
             Cos’è?». «Mine» gli risposero. Ma nessuno ebbe il coraggio di chiedersi

          ad alta voce:
             «Eran  loro?».  Se  eran  loro  lo  si  sarebbe  saputo  più  tardi,  domani
          mattina.
             Eran  circa  le  tre  e  mezzo  quando  decidemmo  che  starsene  alzati  era
          inutile: meglio riposare un poco in attesa dell’alba. Così Abu Kalid e Abu

          Abed e Moroldo si trasferirono accanto dov’erano tutti accampati, a me
          invece  fu  preparato  un  giaciglio  nella  stanza  in  cui  mi  trovavo.  Con
          premura quasi materna un fidayn sistemò due coperte per terra, una come

          tappeto  e  una  per  rinvoltarmi,  poi  aggiustò  alcuni  cenci  a  mo’  di
          guanciale,  abbassò  la   ammella  del  lume  a  petrolio  e  chiuse  la  porta
          sussurrando:  «Laileh  Sa’eedi.  Buonanotte».  Ma  chi  avrebbe  potuto
          dormire.  Cercai  di  impiegare  il  tempo  annotando  le  frasi  di  Abu  Kalid,
          studiando  la  carta  geogra ca,  le  cancellature  sulla  lavagna,  in ne

          approdai  alla  libreria  che  conteneva  cinquantasette  volumi,  la  maggior
          parte in arabo ma alcuni in inglese: la vita di Ho Chi Minh, il Diario  di
          Che  Guevara,  un  saggio  di  Giap,  i Pensieri  di  Mao  Tse-tung.  Conteneva

          anche  una  busta,  così  rotta  che  ti  invitava  a  guardare,  così  la  presi  e
          dentro  c’erano  le  poesie  di  Abu  Kalid.  Un  centinaio  di  pagine  scritte  a
          macchina, in arabo, e in fondo alcuni fogli a quadretti con la traduzione
          in  inglese.  Potevo?  Dovevo?  Gli  avrei  chiesto  il  permesso  più  tardi.  E,
          seduta vicino al lume, le ricopiai.

             Prima poesia: «La via al palazzo è così lunga / e io mi stanco, mi stanco /
          Una porta si apre, una candela si spenge / son io che rido in faccia alla paura /
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