Page 67 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Una notte con i guerriglieri di Al Fatah
La prima impressione fu di trovarci in un luogo assai più insidioso, e
più esposto.
Compresi presto perché. Le luci di Gerico ci investivano di nuovo
insieme al profumo dei gelsomini: il gigante ci aveva riportato indietro,
verso il ponte Allenby, e non eravamo più sulla sponda del Mar Morto ma
sul ume Giordano. Gli israeliani insomma qui ce li avevamo a ridosso:
con un paio di cannocchiali avremmo potuto vedere le loro pattuglie, le
loro mitraglie puntate. Ciò che non compresi fu perché il gigante avesse
deciso di farci passare la notte proprio lì. Un eccesso di stima? Una s da?
Ricordavo infatti che all’altra base c’era stato uno scambio di frasi in
arabo tra lui e Abu Abed, e Abu Abed aveva ripetuto più volte la parola
Vietnam: evidentemente a spiegargli che essendo stati in Vietnam
eravamo abituati a un certo rischio e alle cattive sorprese. Imprecando mi
dissi coraggio, poi passai a esaminare il posto dove mi trovavo.
Mi trovavo dentro un boschetto di palme e banani che nascondevano
un edi cio a un piano: forse l’avanzo di una piccola scuola, forse un ex-
magazzino, o forse una ex-fattoria. Intorno ci girava come una veranda,
coperta da una tettoia massiccia, e qui si aprivano le porte, qui era
collocata la mitraglia antiaerea. Due sentinelle in uniforme e imbacuccate
nel solito kassiah sorvegliavano l’unica strada per cui si arrivava, una
terza teneva d’occhio il boschetto. Quando giunse il gigante scattarono e
ci immisero dentro una stanza illuminata da un lume a petrolio. Nella
stanza c’era un tavolaccio, due panche, una lavagna, una carta geogra ca
della Palestina, una specie di libreria e un bauletto. Con gesti educati ma
autoritari il gigante ci ordinò di sedere, poi sedette a sua volta, di faccia,
si tolse con lentezza esasperata il kassiah, appoggiò sul tavolo due mani
da strangolatore, e restò lì a farsi osservare. Era la maschera stessa
dell’intelligenza crudele, della determinazione senza pietà. Sotto la fronte
stempiata e incisa di rughe dove si annidava la polvere, gli occhi
bucavano come aghi fatti per ferire; sotto i ba ispidi, pesi, la bocca si
serrava come una forbice ansiosa di tagliare.
La barba non rasata da giorni copriva le guance grassocce d’un velo
nero, cattivo, e quando le labbra si schiusero anche i denti apparvero
neri: quasi li avesse macchiati masticando betel. Le labbra si schiusero per
lasciar ltrare una voce bassa, allo stesso tempo arrogante e monotona.
Con tal voce disse: «Mi chiamo Abu Kalid. Dirigo tutte le basi lungo il
Giordano». Era l’uomo da cui dipendevano i quarantaduemila dayn che
ogni notte passavano il fiume per andar forse a morire.