Page 59 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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E io risposi: per tornare a casa mia.
             Così divenni un fidayn.»

             S’era parlato dopo la manovra che era  nita alle due del mattino, dopo
          un gran sparare.
             S’era  parlato  sotto  una  tenda,  circondati  dagli  uomini  della  Milizia
           dayn,  e  vicino  ad  Abu  Giacobbe  era  sempre  rimasto  suo   glio:  un
          bambino di nove anni, vestito con una piccola tuta mimetica, capace di

          sparare smontare rimontare in cinquanta secondi un kalashnikov. Dopo il
          racconto Abu Giacobbe gli aveva detto: «Di’ alla signora come ti chiami».
          E il bambino aveva risposto: «Mi chiamo Saladino». «Di’ alla signora chi

          era Saladino.» E il bambino aveva risposto: «Era un arabo che liberò la
          mia terra dagli invasori. Una specie di Fidel Castro». Allora Abu Giacobbe
          s’era arrabbiato: «Che c’entra Fidel Castro,  gliolo? Chi t’ha detto queste
          cose? Noi non siamo comunisti, siamo fidayn e basta».
             Procedevamo in linea indiana: prima un  dayn, poi Abu George, poi io,

          poi Moroldo, poi Abu Abed, poi l’altro  dayn. Il terreno era accidentato,
          colmo di sassi: inciampavamo continuamente perché non si poteva usar la
          torcia  elettrica  e  rischiararci  il  cammino.  Tre  volte  dovemmo  saltare  un

          ruscello, due volte fummo lì per caderci dentro. Dovemmo anche superare
          una siepe rinforzata col  lo spinato e passare in equilibrio su un lavatoio
          che  all’appoggio  dei  piedi  o riva  appena  un  bordo  strettissimo,
          sbocconcellato.  Si  trattava  di  un  luogo  assai  ben  nascosto,  inaccessibile
          per  chi  ne  fosse  estraneo,  e  non  saprei  riconoscer  la  strada  per  cui  ci

          arrivammo.
             Ricordo solo un viottolo coi solchi delle ruote, che saliva ripido per una
          collinetta, e un abbaiare di cani mentre Abu Abed diceva: «Fermi! Sono

          mordaci. Li hanno allenati ad annusare le scarpe e avventarsi alla gola di
          chiunque abbia scarpe con un odore non familiare. Bisogna aspettare che
          vengan legati». Aspettammo e presto venne il segno di avanzare. Il segno
          era un  schio modulato come il cinguettar di un uccello. Per comunicare
          tra loro, anche in missione, i  dayn cinguettano come gli uccelli. Sanno

          imitarli  tutti,  imparan  nei  corsi  di  addestramento.  Imparano  anche  ad
          abbaiare,  a  rispondere  ai  cani.  Quest’ultima  cosa  gli  serve  quando
          circondano un kibbutz o si avvicinano a qualche villaggio.

             La  base  stava  in  una  vecchia  casa  colonica,  semidistrutta  dai
          bombardamenti. Di intatto non restavano infatti che due stanze, l’aia e la
          stalla.  La  stalla  era  chiusa  e  sorvegliata  da  una  sentinella:  di  certo
          conteneva il deposito delle armi. Sull’aia era sistemata una mitragliatrice
          antiaerea, di marca cecoslovacca. Le stanze erano unite fra loro con una

          specie di pianerottolo e un tetto di frasche. Il pianerottolo era rischiarato
          da un debole lume a petrolio. Qui ci sedemmo, accucciati per terra, e Abu
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