Page 55 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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mare e lo sbalzo ti provoca ronzio agli orecchi, senso di oppressione. Però
non dicemmo nulla ai nostri accompagnatori: la loro bocca era chiusa in
un silenzio che chiedeva solo silenzio e il loro nervosismo era aumentato.
Per trarre in inganno gli aerei, Abu George aveva spento un faro
dell’automobile e, per sentirli arrivare, Abu Abed aveva abbassato il vetro
del nestrino. Qui si sporgeva continuamente, teso a ogni rumore
sospetto. Solo quando apparve quel lago di luce giù nella vallata al di là
del con ne, e dietro di esso altra luce, meno chiara ma più di usa, i due
uomini si lasciarono andare in un grido:
«Gerico! Gerico! Gerusalemme!». E Abu George aggiunse, con la voce
incrinata dal pianto: «Sento il profumo dei gelsomini di Gerusalemme».
In ne fummo a El Shuna, l’ultimo villaggio prima del ponte Allenby,
ormai frantumato dai razzi e dai mortai, e girammo a sinistra: su per la
strada che costeggia il Giordano. Il profumo dei gelsomini si sentiva
davvero, e le luci di Gerico ci venivano sempre più addosso: con un
cannocchiale, scommetto, avresti potuto vedere i soldati israeliani. I posti
di blocco s’erano fatti più frequenti: ogni due o tre chilometri ci fermava
un bagliore azzurro di torcia, cinque o sei dayn col volto coperto dal
kassiah ci puntavano i kalashnikov e chiedevano il lasciapassare.
Ottenutolo, ci esaminavano senza entusiasmo uno a uno e ci ordinavano
di proseguire avvertendo: «Ou’a! Fate attenzione!». Ripartivamo
guardinghi, a fari spenti, saltando sulle buche e sui sassi di una strada che
forse non era più una strada ma un campo, mentre Abu Abed brontolava:
«Domani bisogna andarcene, intesi? Restar qui è troppo pericoloso».
D’un tratto ci lasciammo alle spalle anche le luci di Gerico, il cielo si
o uscò di una nebbiolina che annunciava la pioggia e quel profumo di
gelsomini scomparve. Ebbi l’impressione che non viaggiassimo più lungo
il ume ma che percorressimo la sponda del Mar Morto. Confusamente si
delineò un lare di alberi e qui Abu George spense i motori. Due dayn
armati apparvero come fantasmi dal nulla e ci dissero che da quel
momento bisognava andare a piedi: loro ci avrebbero servito da scorta.
Sembravano molto giovani, molto miti, e molto gentili. Cercando di
intravederne il viso, come sempre nascosto dal kassiah, non potevi evitar
di provare una specie di tenerezza per loro. Erano gli stessi che quasi ogni
notte si imbrattavano il viso di vernice nera o polvere di carbone, si
caricavano di munizioni ed esplosivi, e partivano verso i campi di mine,
le mitraglie puntate. Eran gli stessi che poche ore prima avevo visto negli
ospedali di Al Fatah, chi senza un piede, chi senza una gamba, chi senza
le dita di una mano e chi cieco, e se ci parlavi ti rispondevan sereni:
«Forse la vista mi tornerà e potrò rientrare alla base». Oppure: «Forse mi
faranno un piede arti ciale e potrò tornare a combattere». Con quella