Page 51 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Se uccidi i miei figli io ucciderò i tuoi figli




             Partimmo di notte, da Amman. La notte era limpida e fredda, ottima
          pei  bombardamenti,  l’aria  tremava  di  mille  minacce.  Abu  George

          mormorò: «Sei certa di volerci andare?
             Tempo  fa  un  giornalista  mi  mandò  pazzo  perché  ce  lo  portassi  ma
          quando  venne  il  momento  ri utò  di  seguirmi.  Sei  certa  di  volerci
          andare?». «Sì. Abu George.» «Non hai paura?» «Ne ho molta. Abu George.»

          «Ne avrai di più all’alba, il peggio viene con l’alba. È allora che arrivano
          gli  aeroplani  o  che  tirano  con  l’artiglieria.»  «Lo  so,  Abu  George.»  «E  va
          bene.»  Abu  Abed  invece  non  disse  nulla,  s’era  chiuso  in  mutismo  e  si
          mordeva  le  unghie.  Partimmo  con  una  vecchia  automobile:  Abu  George

          stava al volante e Abu Abed accanto a lui. Tra i sedili tenevano un mitra e
          ogniqualvolta capitava un sasso o una buca il mitra rimbalzava sordo, la
          canna si abbassava verso me e Moroldo.
             Moroldo la tirava su brontolando: «Badiamo di farci arrivare vivi, eh?».

          Il primo posto di blocco lo trovammo appena usciti da Amman. A fermarci
          fu la polizia giordana che ci lasciò proseguire senza difficoltà ma avevamo
          percorso pochissimi metri che due fidayn con la tuta mimetizzata e il volto
          coperto dal kassiah balzaron dal buio puntandoci addosso i kalashnikov.

          Abu George avvertì: «Fatah!». Ma la parola, che di giorno era un magico
          lasciapassare,  di  notte  non  bastava  più.  Fu  necessario  esibire  i  fogli
          timbrati,  rmati, spiegar dove andavamo e perché. In ne fummo davvero
          in viaggio lungo quella strada che con un po’ di sfortuna avrebbe potuto

          portarci a morire, e Moroldo chiese: «Tutto a posto?». Io gli risposi: «No,
          grazie». Così lui aggiunse:
             «Neanch’io.  Ma  l’abbiamo  già  fatto,  siamo  stati  in  Vietnam».  «Dalla
          parte degli americani, Moroldo. Ora è come se ci tornassimo dalla parte

          dei  vietcong.»  Abu  Abed  e  Abu  George  si  scambiarono  un’occhiata
          scontenta.  Non  gli  piaceva  sentirci  parlare  italiano.  Ci  conoscevamo  da
          cinque  giorni  e  non  si   davan  di  noi.  Né  noi,  a  conti  fatti,  di  loro.  Ci
          avevano  dato  quei  nomi,  Abu  George  e  Abu  Abed,  ma  George  non  si

          chiamava  George  e  Abed  non  si  chiamava  Abed.  Di  vero  non  c’era  che
          Abu, l’appellativo che i guerriglieri palestinesi usano invece di camerata,
          compagno.
             Signi ca Padre. Di Abu George, un ventiseienne dai capelli castani e gli

          occhi  colmi  di  rancore,  sapevamo  soltanto  che  era  un  ex-studente  di
          farmacia: rientrato da San Francisco dove frequentava con una borsa di
          studio  la  California  University.  Di  Abu  Abed,  un  trentacinquenne  dal
          corpo  tozzo  e  il  viso  ingrugnito,  sapevamo  che  era  ingegnere:
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