Page 342 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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che mi è successo ieri sera.
Cercavo un passaggio per rientrare in albergo, ieri sera, e poiché non
esistono taxi ho seguito il sistema che seguono tutti: ho chiesto aiuto a una
macchina che andava nella mia direzione. Una Mercedes che portava a
bordo un vecchio e un ragazzo con la giacca americana e l’M-16 in mano.
«Okay, get in, salga» ha risposto il vecchio dopo aver gettato un’occhiata
alla carta d’identità che qui i giornalisti portano al collo: una specie di
lasciapassare che ai posti di blocco evita soste e domande. Sono salita, ma
invece di vedermi accompagnare all’albergo che distava una decina di
chilometri ad est, mi son vista portare un centinaio di chilometri a sud:
verso la città di Mina. Inutile opporsi, inutile arrabbiarsi. Sordo alle mie
proteste, il vecchio continuava a guidare verso la città di Mina, e se mi
arrabbiavo troppo il ragazzo mi minacciava con l’M-16. «Shut up, chiudi il
becco, shut up!» È durato quasi due ore, l’assurdo viaggio. Poi il vecchio
ha frenato di colpo, ha indicato al ragazzo un boschetto che si intravedeva
oltre la strada, gli ha detto «ialla – vai – ialla», e balbettando con voce
rotta «sciukran – grazie – sciukran» il ragazzo è sceso. Si è dileguato nel
buio col suo M-16, la sua giacca americana, e il vecchio m’ha detto: «Now
I can get you to the hotel. Ora posso portarti all’albergo». S’era servito di
me e del mio lasciapassare per mettere in salvo un palestinese.
È incominciata la caccia al palestinese, qui sinonimo di
collaborazionista, e se te ne indigni i kuwaitiani rispondono: «Voi europei
che facevate, alla ne della Seconda guerra mondiale, con chi aveva
collaborato coi tedeschi? Gli dicevate grazie?». Sul fatto che moltissimi
palestinesi abbiano collaborato con gli iracheni, infatti, non esistono
dubbi. Quando occuparono il Kuwait le truppe di Saddam Hussein si
portarono dietro diciassettemila seguaci di Arafat o di Abu Abbas o di Abu
Nidal che avevano chiesto l’onore di stargli accanto. De nendosi «Brigata
araba» i diciassettemila si installarono nella capitale con gli invasori, e li
aiutarono in ogni senso ad esercitare il terrore. Peggio: gran parte dei
palestinesi che abitavano già nel paese si unirono a loro, e fu anche
grazie a questo connubio che l’occupazione divenne spietata.
«In agosto i saccheggi nelle case non furono compiuti dagli iracheni»
racconta Thamer Al Dakheel, l’interprete che mi accompagna. «All’inizio
gli iracheni si preoccupavano soltanto di vuotare gli ospedali e i musei,
come il Museo dell’Arte Islamica, e nelle case non entravano a atto. In
agosto ci entravano i palestinesi che s’erano uniti alla Brigata islamica:
glielo dice uno che ha assistito allo scempio. Sì, scempio. Spaccavano le
serrature e prendevano tutto: mobili, tappeti, vestiti. Oppure entravano
nei magazzini di alimentari, li vuotavano completamente, e poi ci
rivendevano la merce a prezzi esorbitanti: nei negozi o al mercato nero.