Page 339 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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sono tolti il piacere di entrare nel Kuwait ed hanno mandato i sauditi,
quei tappeti rosa e celeste, non potevano farlo. I sauditi che per evitare la
stessa accusa sono rimasti alle soglie della città, nemmeno. E la resistenza
kuwaitiana è una realtà da dimostrare. «Io volevo tanto parteciparvi, fare
qualcosa» mi dice in ottimo inglese un kuwaitiano che osserva in disparte.
«Ma ogni volta che cercavo un contatto non lo trovavo. Creda a me:
hanno fatto tutto loro.» Loro chi? Domando. «Loro» risponde indicandomi
un u ciale americano che in tuta mimetica e berretto mimetico tiene un
neonato tra le braccia e in quella posa si fa fotografare dalla folla
entusiasta. «Anche le bandiere nuove di zecca?» incalzo. «Certo» risponde
indicandomene una gigantesca, venti metri per dieci a dir poco, che
tenuta orizzontalmente da un gruppo di scalmanati attraversa lo spiazzo.
Anche gli slogan «Iu’-es-e, dio-salvi-Bush, grazie-americani-grazie
pronunciati in perfetto inglese?» insisto. «Ovvio» risponde indicandomi
tre giovanotti che ora inneggiano anche al ministro Major. «Non s’illuderà
mica che i kuwaitiani sappiano chi è il signor Major?»
Sono le tre del pomeriggio quando rincorsa dai ringraziamenti, baci,
abbracci, ululati, ra che di kalashnikov, scorgo una ragazzina che piange
abbracciata a una donna col volto completamente coperto dal velo. È una
ragazzina sui quindici anni, vestita con un lungo abito azzurro e un
chador nero, così bella da non sembrar vera.
Splendidi lineamenti da Madonna del Perugino, splendidi occhi neri
dalle ciglia lunghe e ricurve, corpo alto e snello, allure da regina. «Come
ti chiami?» le chiedo in inglese.
«Leila al Hussain» singhiozza. «Perché piangi?» le chiedo. E lei risponde:
«Because me vary sad, perché me molto triste» singhiozza. «Perché sei
triste? Oggi sono tutti felici» le dico. «Because my brother Habib not here
to be happy, perché mio fratello non qui ad esser felice» singhiozza.
«Habib dead, morto.» Poi mi racconta che Habib ce l’aveva a morte con
gli iracheni e diceva: «Bisogna fare qualcosa, non possiamo starcene con
le mani in mano ad aspettare che gli altri muoiano per noi». Ma un
giorno non è tornato a casa e un mese dopo il suo corpo è stato trovato
sotto un albero, tutto bruciato e tagliato dal collo in giù. «Sei sicura?» le
chiedo. «Lo hai visto?» «No» singhiozza. «Me lo hanno raccontato.» «E se ti
avessero raccontato una bugia, se ad esempio fosse fuggito?» «Me not
know, io non sapere» singhiozza. «Ma se è scappato io piango lo stesso.»
Allora la donna col volto completamente coperto dal velo le batte una
mano sul braccio, le dice qualcosa. È la madre di un giovanotto che si è
arruolato nell’esercito kuwaitiano ed è venuta sullo spiazzo con la
speranza di ritrovare suo glio, ma non lo ritrova e teme che sia morto
anche lui nella battaglia per liberare il Kuwait. «Sono certa che lui non è