Page 336 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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benzina:  gli  uni  e  gli  altri  colmi  di  televisori,  computer,  frigoriferi,
          soprammobili, abiti da donna, coperte. Sull’asfalto, persino gli astucci da

          gioielliere (vuoti s’intende), gli orologi da tavolo, le scatolette di cibo, i
          mazzi  di  cipolle  fresche.  Forse  qui  c’è  una  verità  da  ridimensionare,  si
          dice, e inutile aggiungere che tale verità include anche gli arabi mandati
          nel Kuwait per sostenere la tesi che il paese è stato liberato da loro e non
          dagli occidentali.

             Sgangheratamente  seduti  sui  carri  fermi  ai  lati  della  strada  i  militari
          sauditi agitano i fucili, allargano l’indice e il medio nel segno di vittoria,
          posano per i cameramen d’una televisione cui interessano le immagini e

          basta,  ma  i  loro  cannoni  ancora  incappucciati  raccontano  di  non  avere
          sparato  un  colpo  e  un’occhiata  ti  basta  per  concludere  che  di  bugie  ne
          sono  state  dette   n  troppe.  Quanto  ai  militari  kuwaitiani,  il  più
          signi cativo è uno che indossa il thobe azzurro ricamato d’oro e si balocca
          con la mitragliatrice dell’autoblindo cercando di capire come funziona. Il

          bottone  di  sparo  sta  a  destra  o  a  sinistra?  Sono  le  10  antimeridiane  di
          mercoledì 27 febbraio, data che passerà alle cronache (se non alla Storia)
          come  il  giorno  in  cui  venne  liberato  il  Kuwait.  Superando  i  carri  coi

          tappeti rosa e celeste il pullman arriva alla periferia di Kuwait City e alla
          prima  curva  viene  bloccato  da  una  folla  che  non  avendo  ancora  visto
          nessuno  ci  scambia  per  un’avanguardia  dei  liberatori.  Inutile  tentare  di
          chiarire l’equivoco, spiegare che non abbiamo liberato un bel nulla, che
          siamo qui a guardare e nient’altro.

             Sventolando  bandiere  nuove  di  zecca,  alcune  kuwaitiane,  altre
          americane, altre inglesi (ma chi gliele ha procurate, chi gliele ha date?),
          strillano  festosi:  «Thank  you  American,  grazie  americani,  thank  you!».

          Oppure: «Bush! God save Bush, Dio salvi Bush». Nel giro di pochi istanti
          l’imbarazzante  accoglienza  diventa  un  frastuono  mostruoso.  Donne  che
          emettono il gutturale ululato con cui a Beirut piangevano i morti: «Gluglu-
          glu-glu-glu-gluuu».  Giovanotti  che  per  esprimere  il  loro  entusiasmo
          sparano in cielo ra che di kalashnikov e a mo’ di ra ca berciano rauchi:

          «Insciallah, insciallah!». E quattro sciagurate che arrivano con un asinello
          sul cui  anco destro hanno scritto con la vernice «Asmo Saddam, Saddam
          ciuco». Sicché tutti si buttano sulla povera bestia e la pigliano a calci, a

          schia ,  a  pugni,  come  se  fosse  Saddam,  e  la  povera  bestia  raglia  di
          dolore.
             «Hih, ha! Hih, ha!» Raglia  nché un saggio dall’aria gentile prende in
          mano  il  guinzaglio  a  cui  l’hanno  legata  e  la  porta  via  protestando,  ma
          allora nasce un tumulto diverso: quello di chi vuole raccontarci quanto ha

          so erto. «My sister raped, mia sorella violentata.» «My father killed, mio
          padre ucciso.» Lo dicono con molta passione, tanta passione che gli credi
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