Page 24 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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giardiniere a erma di non avere mai visto, in tre anni, sua moglie e sua
           glia prive del velo. «Io credo» dice «che sua moglie e sua  glia non si

          siano mai lasciate accarezzare dal sole. La loro casa ha le grate.»
             C’è molto sole sui paesi dell’Islam: un sole bianco, violento, che acceca.
          Ma le donne mussulmane non lo vedono mai: i loro occhi sono abituati
          all’ombra  come  gli  occhi  delle  talpe.  Dal  buio  del  ventre  materno,  esse
          passano al buio della casa paterna, da questa al buio della casa coniugale,

          da questa al buio della tomba. E in quel buio nessuno si accorge di loro.
          Interrogare  un  mussulmano  sulle  sue  donne  è  come  interrogarlo  su  un
          vizio segreto e il giorno in cui dissi al direttore di un giornale pakistano:

          «Sono  venuta  per  scrivere  un  articolo  sul  problema  delle  donne
          mussulmane; può fornirmi del materiale?» lui si inalberò e rispose: «Quale
          problema?  Non  esiste  problema  delle  donne  mussulmane».  Poi  mi
          consegnò un pacco di dattiloscritti dove si parlava dei vestiti delle donne
          mussulmane,  dei  gioielli  delle  donne  mussulmane,  del  maquillage  delle

          donne mussulmane, e come le donne mussulmane usano l’olio di cocco per
          lucidare i capelli, come usano l’henna per tingersi di rosso le palme delle
          mani e dei piedi, come usano l’antimonio mischiato ad acqua di rose per

          tingersi  le  sopracciglia  e  le  ciglia.  «Qui»  disse  «c’è  tutto  sulle  donne
          mussulmane.»
             Sono dunque le donne più infelici del mondo, queste donne col velo. E il
          paradosso è che non sanno di esserlo perché non sanno ciò che esiste al di
          là  del  lenzuolo  che  le  imprigiona.  So rono  e  basta,  come  la  Madre

          dell’Assente  che  conobbi  una  mattina  a  Karachi,  e  non  osano  nemmeno
          ribellarsi. Ero andata, quella mattina, a conoscere la Begum Tazeen Faridi
          che dirige a Karachi la All Pakistan Women Association. La Begum è una

          signora tonda e dorata come una mela renetta che ama de nire se stessa
          «una  mussulmana  che  non  porta  il  velo  e  possiede  un  cognome».  Il  suo
          quartier generale è un piccolo u cio, prudentemente privo di insegne e
          cartelli, dinanzi al quale i mussulmani informati passano con la medesima
          smor a di orrore che riserberebbero, loro antialcoolici, a un bicchiere di

          whisky.  E  lo  scopo  principale  della  sua  vita  è,  a  parte  un  marito
          monogamo,  il  progresso  delle  donne  mussulmane.  Codice  e  Corano  alla
          mano, la Begum combatte come una gatta arrabbiata contro la poligamia

          ed è tanto moderna che, tempo addietro, si provò per no a mandare una
          Miss Pakistan al concorso di Miss Universo che si svolge a Long Beach.
          Dodici  signore  mussulmane,  capeggiate  da  Tazeen  Faridi,  giudicarono
          Miss  Pakistan  in  costume  da  bagno  e  dodici  signori  mussulmani  la
          giudicarono  subito  dopo  col  purdah.  Ovviamente  i  signori  mussulmani

          non  riuscirono  a  vedere  granché:  ma  si   darono  della  Begum  e  dissero
          che, così coperta, Miss Pakistan poteva anche andare a Long Beach. «Non
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