Page 228 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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attaccarono.
Una quarantina di uomini del kibbutz, i più giovani e forti, uscirono per
dargli la caccia.
Caddero nell’imboscata e ne morirono due. Marco era uno dei due. Lo
seppi sette ore dopo. Fu duro ma lo sopportai: eravamo in guerra. Ci
consideriamo ancora in guerra: basta osservare quei bunker. L’intero
kibbutz è circondato da rifugi, da bunker: per anni ci abbiamo dormito,
mangiato, tenuto i bambini a scuola. Fino al 1970 qui siamo stati giorno e
notte sotto il fuoco dei katiuscia. Ricordo che nel 1967 mia glia
telefonava da Gerusalemme e diceva: «Mamma, qui bombardano!». Ed io
rispondevo con indi erenza: «Ah, sì? Anche qui». Siamo talmente abituati
alle pillole. Le bombe e i razzi noi li chiamiamo pillole.
Le mie glie non parlano italiano. Né quella che sta a Gerusalemme né
quella che durante la guerra dei Sei giorni faceva l’u ciale di
collegamento nel Negev. Quanto a me, non sento più nulla in comune con
l’Italia e con gli italiani. Sono tornata una volta in Italia, e sai cosa
signi ca andare in una città che non è più la tua, dove non riconosci più
una persona per strada? Rimasi sei settimane, il minimo indispensabile
per mettere a posto certe cose familiari: non volevo restare un giorno di
più. Ne appro ttai per fare un giro a Roma, a Padova, a Milano, a
Genova, a Venezia, e ovunque mi sentii all’estero. Mai un giorno mi sentii
a casa mia o in un paese che era stato casa mia.
Neanche per una questione di facce. Per una questione di paesaggio,
direi, di sentimento. Solo quando ci fu l’alluvione di Firenze mi si strinse il
cuore: avevo conosciuto così bene quei quadri, quei monumenti. Voglio
dire: se Firenze fosse stata in Cina, mi sarebbe dispiaciuto lo stesso ma il
cuore mi si sarebbe stretto meno. Non mi mancano le cupole di Firenze, i
campanili di Firenze, i ponti di Firenze, i tramonti di Firenze. Quelle
cupole, quei campanili, quei ponti, quei tramonti appartengono alla mia
infanzia e alla mia adolescenza: non fanno più parte della mia vita. Ora
ho Gerusalemme. Lo so: alcuni parlano del vivere in una cornice che non
è più la cornice in cui sono nati. Ma tale cornice io l’ho lasciata
spontaneamente. Ed ora non ne avverto il rimpianto che avvertono
coloro i quali furono forzati a partire. Nella vita bisogna saper scegliere.
Non si può aver tutto dalla vita. Là avevo la bellezza, qui ho lo scopo.
Tra i due, preferisco il secondo. Anche se mi è costato caro: ad esempio,
la morte di mio marito.
Mi sono espressa bene? Non ho rimpianti, non ho tenerezze, non ho
nostalgie. Ormai preferisco Gerusalemme a Firenze. Forse Gerusalemme
non è così bella. Però mi o re qualcosa che a Firenze non avevo: la mia
identità.