Page 227 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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dopo l’arrivo degli alleati a Firenze. Il giorno in cui gli alleati entrarono
          in città, noi ebrei di Firenze ci precipitammo alla sinagoga e qui conobbi

          colui  che  sarebbe  diventato  mio  marito.  Si  chiamava  Marco  Morpurgo,
          aveva  ventiquattro  anni  e  veniva  da  una  famiglia  di  Padova  dove  era
          stato  costretto,  anche  lui,  a  interromper  gli  studi  per  le  leggi  razziali.
          Sognava  di  trasferirsi  in  un  kibbutz  perché  suo  fratello  stava  già  in  un
          kibbutz.

             Partii insieme a lui, nel 1945, dando un dolore a mia madre che non
          capiva  questa  storia  della  Palestina.  Ero  la  sua  sola   glia,  e  non  potei
          nemmeno salutarla il giorno in cui lasciai Firenze. Ci avevano messo in

          un  campo,  non  sapevamo  quando  sarebbe  giunto  il  momento  di
          andarcene. Ogni mattina andavo a visitarla e le dicevo: «Mamma, forse
          domani  parto».  Una  mattina  le  dissi:  «Mamma,  se  domani  non  mi  vedi
          vuol  dire  che  sono  partita».  E  così  avvenne.  Ma  non  fu  terribilmente
          drammatico: la mamma rimase sola a Firenze per due anni e basta, poi mi

          raggiunse in Israele. Inoltre, se dicessi che mi dispiacque lasciarla, sarei
          un’ipocrita.  I  certi cati  di  emigrazione  li  davano  soltanto  ai  giovani:
          quell’anno  lei  non  poteva  venire.  Del  resto,  anche  se  avessi  provato  un

          dolore, esso sarebbe svanito sulla nave che ci portava a Haifa. Eravamo
          tutti  così  felici!  Eravamo  tutti  ragazzi  ed  eravamo  stati  un  mucchio  di
          tempo senza parlare, ci sentivamo a amati di discussioni, e per tre notti
          non  facemmo  che  chiacchierare:  sulla  guerra,  sull’ebraismo,  sulla
          Palestina, sul mondo, sul cosmo… Ricorderò sempre quella nave. Non era

          nemmeno una nave, era un battello pei grandi laghi. Vicino alle ciambelle
          di  salvataggio  c’era  una  scritta:  «Portata  massima  cento  persone  oltre
          all’equipaggio».

             Ridevamo,  leggendo,  perché  eravamo  in  novecento.  Cento  italiani  e
          ottocento provenienti dall’Europa Orientale.
             Partimmo  da  Taranto.  Fino  ad  Haifa  viaggiammo  con  la  paura  di
          saltare  in  aria:  il  Mediterraneo  era  ancora  pieno  di  mine.  A  Haifa  gli
          inglesi  ci  misero  subito  in  un  campo  di  concentramento:  malgrado  il

          certi cato di emigrazione legale, venivamo da un paese che al Nord era
          ancora in guerra con la Gran Bretagna. Ciascuno di noi era sospetto: non
          avevamo  nemmeno  il  passaporto,  solo  la  carta  d’identità  e  le  impronte

          digitali.  Ci  interrogarono  a  uno  a  uno,  per  dieci  giorni,  e  ci  pensarono
          bene  prima  di  darci  il  permesso.  Appena  lo  ottenemmo,  io  e  Marco
          venimmo in questo kibbutz e ci sposammo. Era il febbraio del 1946. Nel
          1947 nacque la prima bambina. Nel 1948 rimasi incinta di nuovo e mio
          marito morì. Restò ucciso in un’imboscata degli arabi, come tanti in questi

          kibbutz  di  frontiera.  Tre  mesi  prima,  in  agosto,  suo  fratello  era  morto
          combattendo  a  Haifa.  Per  mio  marito  andò  così.  All’alba  gli  arabi  ci
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