Page 232 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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beccarono  tutti  nel  sonno.  Tutti  fuorché  mio  padre  che  per  caso,  quella
          notte, dormiva presso amici. Si salvò solo una delle mie sorelle perché, in

          camicia da notte, balzò sul terrazzo. Infatti quando la vidi correre verso il
          terrazzo  pensai  che  volesse  buttarsi  di  sotto.  Invece  rimase  lì,  nascosta
          dietro una persiana, e i tedeschi non la videro. Dice che dopo correva per
          strada gridando come una pazza: «Tutti! Li hanno portati via tutti! Anche
          la zia, lo zio, il cugino, tutti!».

             Era  il  18  ottobre  del  1943  e  quel  giorno  imparai  a  mentire,  senza
          vergogna. Avevo mangiato la mia carta d’identità e, quando il tedesco ci
          rinfacciò  d’essere  ebree,  spalancai  gli  occhi  pieni  di  sorpresa:  «Ebree

          noi?!? Mio padre lo è, purtroppo. Ma non sappiamo dove si trovi e, ad
          essere oneste, non ce ne importa nulla». Il tedesco sembrò convinto, chissà
          perché. Tirò un calcio alla valigia dove ci avevan permesso di mettere la
          biancheria,  ed  urlò:  «Raus!  Fuori!».  Così  uscimmo,  io  mia  sorella  e  mia
          mamma, gli zii no perché loro si chiamavano Levi, e incominciò la nostra

          battaglia  per  sopravvivere.  Una  battaglia  squallida,  confortata  solo  dal
          fatto d’aver ritrovato mio padre e mia sorella: quella che s’era nascosta
          sul terrazzo. Abitavamo da certi signori che ignoravano la nostra identità

          perché  le  nostre  carte  erano  false,  e  davamo  lezioni  private  per
          raggranellar qualche soldo. Nessuno di noi era legato alla Resistenza: se
          guardo  indietro  concludo  che  eravamo  così  ignoranti.  Non  pensavamo
          nulla, non desideravamo nulla fuorché l’arrivo degli alleati. L’incubo era
          la  menzogna  e  quell’urlo  del  tedesco:  «Raus!  Fuori!».  Quando  Roma  fu

          liberata,  mi  sembrò  talmente  ovvio  andar  fuori:  in  Palestina.  E  forse
          anche per questo mi sento così staccata dall’Italia.
             Io non capisco Giovannino che parla ancora di legami. Una volta sono

          tornata in Italia, e solo il paesaggio m’è parso familiare. Le montagne, ad
          esempio,  Cortina.  Sono  stata  anche  a  Ferrara  sebbene  lì  non  avessi  più
          nessuno fuorché i miei morti al cimitero.
             Son  passata  dinanzi  alla  scuola  dove  studiavo  e  m’è  venuto  voglia  di
          entrare, di riveder la mia aula. Era un pomeriggio, c’era lezione, e quando

          ho  aperto  l’uscio,  piano  piano,  ho  avuto  il  lampo  di  una  bambina  che
          arriva trafelata mentre il professore tuona: «Piera Levi! Lei arriva sempre
          in ritardo!». Ricordi, insomma. Non rimpianti. Ormai son lavata del mio

          passato. E non perché abbia voluto lavarmene ma perché è successo da sé,
          in modo lento e spontaneo. Non dimentichiamo che ho lasciato l’Italia di
          mia volontà e non per imposizione. Quando si fanno simili scelte, le radici
          a poco a poco seccano. Con esse, la nostalgia. Naturalmente preferisco un
          piatto  di  pastasciutta  al  pesce  dolce  che  si  mangia  qui.  Naturalmente

          parlo, leggo e scrivo meglio in italiano che in ebraico, però… Per rendere
          bene l’idea devo dirle ciò che accadde durante quel mio viaggio in Italia.
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