Page 229 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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GIOVANNI DI CASTRO

             Non mi sento più italiano, ma non ho dimenticato le squadre di calcio

             Sebbene la mia famiglia fosse di Ferrara, sono nato a Roma e da Roma
          partii nel marzo del ’45. A Roma frequentavo la scuola ebraica, insieme
          ad  altri  settecento  studenti,  ed  è  interessante  osservare  che  solo  una

          cinquantina di questi lasciarono l’Italia come me.
             Una  percentuale  assai  bassa.  Il  timore  di  cambiare  ambiente,  il  fatto
          d’esser  cresciuti  negli  agi,  i  legami  sentimentali  frenarono  in  molti  il

          desiderio  di  venire  qui:  per no  nel  1945,  quando  scegliere  Israele  era
          facile  perché  la  Brigata  palestinese  dell’esercito  britannico  organizzava
          tutto.  Ad  esempio  mio  padre,  architetto  dell’alta  borghesia,  non  fu
          contento che me ne andassi. Solo mia madre comprese. Dopo la morte di
          lui, mi seguì addirittura: portandosi dietro gli altri. Di sei  gli, ben cinque

          sono qui. Dopo di me venne una mia sorella, poi un’altra mia sorella, poi
          due  fratelli.  A  Roma  è  rimasto  solo  un  fratello  che  fa  il  consulente  di
          azienda.  Ma  lui  è  diverso  da  noi.  Non  capisce  ad  esempio  che  la  mia

          partenza fu motivata dalla religione. Sono molto religioso e non avrei mai
          scelto Israele se non avessi potuto entrare in un kibbutz religioso. Vede,
          porto sempre la papalina sul capo. Me la tolgo solo per fare il bagno.
             Avevo vent’anni quando partii, e ricordo bene quel giorno. La Brigata
          palestinese  ci  aveva  raccolto  a  Cinecittà,  in  una  specie  di  campo

          smistamento  pei  profughi  politici  ed  ebrei.  Da  Cinecittà  ci  portarono  in
          treno  a  Bari.  Da  Bari,  su  una  nave,   no  a  Haifa.  La  stessa  nave  di  cui
          parla  Milka  Morpurgo,  sebbene  quel  viaggio  io  l’abbia  visto  in  chiave

          molto  più  drammatica.  Molti  erano  ebrei  che  avevan  perso  i  parenti  in
          Germania  e  che   no  all’ultimo  momento  avevan  sperato  di  vederli
          tornare:  sulla  nave  eran  saliti  solo  dopo  aver  compreso  che  non  li
          avrebbero visti mai più. Così piangevano.
             Piangevo  anch’io.  E  piangeva  mio  padre  salutandomi  dalla  banchina.

          Quando la nave uscì dal porto di Bari, provai un senso di smarrimento,
          forse  di  incertezza.  All’ultimo  momento  ti  assale  sempre  un  dubbio,  un
          timore.  Così  sedetti  sul  mio  baule,  a  convincermi  che  facevo  ciò  che

          dovevo fare. Era un baule pieno di libri di letteratura italiana. Sebbene a
          Roma studiassi materie tecniche, ero ammalato di letteratura ed al punto
          di  riempire  un  baule  di  libri  anziché  di  vestiti.  L’arrivo  a  Haifa  non  fu
          allegro.
             A Haifa c’erano i soldati inglesi che rimandavano indietro chiunque non

          avesse  il  certi cato  di  immigrazione.  E  nel  kibbutz  mi  colse,  di  nuovo,
          quel senso di smarrimento. A quel tempo vi abitavano solo cento persone:
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