Page 224 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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resti ebreo». Per questo decisi di fare la mia casetta qui. Lo decisi quando
          ero allievo u ciale: si ha molto tempo per pensare, sotto le armi. E, se

          non fosse stato per mia madre, sarei venuto subito perché la Palestina per
          me era una condizione sine qua non: come sposare un’ebrea. Sì… Se mi
          fosse  capitato  di  innamorarmi  di  una  non  ebrea,  escludo  che  l’avrei
          sposata.  Per  me,  anche  la  famiglia  era  una  cosa  da  proiettare  in  un
          avvenire  sionista:  i  miei   gli  non  dovevano  essere  italiani  ma  ebrei.

          Infatti non si può essere le due cose insieme, cioè italiano ed ebreo. Come
          ogni compromesso, ciò provoca un conflitto interno terribile.
             Dopo il servizio militare mi  danzai con un’ebrea e, da quel momento,

          la partenza fu solo una data da decidere sebbene mia madre brontolasse:
          «Oh, portare questa povera ragazza tra gli arabi, a coltivare la terra sotto
          il  solleone!».  Ero  impiegato  a  Milano,  funzionario  delle  assicurazioni,
          facevo  una  vita  comoda  e  borghese,  non  partecipavo  al  movimento
          antifascista  perché  la  nostra  norma  era  non  compromettersi  con

          l’antifascismo. La tentazione di combattere Mussolini esisteva, ovvio, ma
          era neutralizzata dal fatto che egli ci vedesse di buon occhio. Negli anni
          Trenta il sionismo era legale e a noi premeva anzitutto difenderci. Avevo

          anche  contagiato  mio  fratello  che,  all’inizio  della  guerra  d’Africa,  era
          venuto qui diventando un sionista scalmanato.
             Da  un  kibbutz  religioso  mi  scriveva:  «Vieni,  vieni!»,  e  mia  madre  si
          lamentava: «Oh, quando penso a mio  glio mezzo nudo, con la zappa in
          mano  e  la  papalina  in  testa!».  Fu  per  accontentare  mia  madre  che,  nel

          1937, mi piegai al compromesso di venire qui per dare una guardata. Così
          chiesi una licenza al mio capu cio che mi scoraggiò: «Ma cosa vai a fare
          in Palestina? Un giovane di belle speranze come te!».

             Partii  da  Trieste,  con  una  nave  dell’Adriatica.  L’arrivo  a  Haifa  mi
          spaventò.
             Perbacco: venivo nella patria degli ebrei, nel paese di re Davide e re
          Salomone, e la prima cosa che vidi al porto furono quei facchini arabi che
          si  gettavan  sulle  valigie  urlando.  Poi  il  viaggio  verso  il  kibbutz  di  mio

          fratello, col tipo che diceva: «Qui, ieri, hanno ucciso degli ebrei». E poi la
          prima  notte  nel  kibbutz:  con  gli  sciacalli  che  urlavano.  E  poi  il
          paesaggio…  Bè,  il  paesaggio  era  una  cosa  da  fare.  E  questo  non  m’ha

          scoraggiato,  m’è  parso  nobile:  dover  rifare  un  paesaggio,  restituirlo
          all’antica beltà.
             Non  bisogna  sottovalutare  il  senso  dell’avventura.  In  certo  senso  ci
          sentivamo  un  po’  come  gli  europei  che  nel  Settecento  andavano  in
          America. Ci sentivamo pionieri, e questa era la nostra America: nobilitata

          da  re  Davide  e  re  Salomone.  Non  che  tale  elemento  fosse  eccessivo,
          intendiamoci, ma nasconderlo sarebbe disonesto. Il kibbutz di mio fratello
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