Page 222 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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«E ha prestato giuramento?» «Certo, signor console.» «A chi?» «Al re e al
          popolo  italiano.»  «Vuol  dunque  esser  dichiarato  spergiuro?»  «No,  signor

          console.  E  per  questo  restituisco  il  passaporto  italiano.»  Posai  il  mio
          passaporto  sul  tavolo,  andai  a  prendere  quello  del  mandato  inglese  e…
          No,  non  mi  dispiacque  sebbene  in  un  certo  senso  mi  sentissi  ancora
          italiano.  Ovvio.  Ancora  oggi,  dopo  quarant’anni  vissuti  in  Israele,  mi
          sento in certo senso italiano. Però… Non so come esprimermi su questa

          faccenda. Ora ci provo.
             La cultura non è una giacca che si rompe e si butta via. Io penso meglio
          in  italiano,  leggo  meglio  in  italiano,  scrivo  meglio  in  italiano,  parlo

          meglio in italiano. Non ho mai imparato l’ebraico perfettamente e non ho
          mai tagliato del tutto i ponti con l’Italia. Il fatto che il mio bisnonno fosse
          venuto dal Württemberg non ha mai inciso su di me, non ha mai s orato
          né la mia coscienza né la mia memoria. Dagli italiani sono sempre stato
          trattato benissimo. A scuola non ho mai ricevuto un a ronto antisemita:

          c’era solo uno stupidello che mi prendeva in giro perché ero ebreo e mi
          faceva l’orecchio di porco col lembo del cappotto. Alla guerra son stato
          nel primo reggimeno cavalleria che era un reggimento pieno di nobili, di

          cugini del re. Alle faccende italiane non ho mai smesso di interessarmi in
          questi  quarant’anni  di  lontananza.  Però  la  mia  partecipazione  è  stata
          sempre sentimentale e ai miei sentimenti ho sempre cercato di guardare
          con  molto  distacco,  ripetendomi  che  non  era  il  caso  di  commuovermi
          troppo.  Capito?  Avevo  già  abbastanza  guai  per  consentirmi  il  lusso  di

          piangere  sugli  italiani:  quando  la  tua  casa  brucia,  non  puoi  fare  il  Don
          Chisciotte  per  gli  altri.  E,  se  dovevo  essere  vittima,  cavia,  tanto  valeva
          che lo fossi per il mio popolo.

             Dirò di più. Amo Ferrara come quaranta, cinquanta anni fa. Amo le sue
          pietre rosse, i suoi angoli consumati dallo strisciare dei carri. Vibro nella
          sua atmosfera mistica, rinascimentale. Spesso la sogno. Ma, tutte le volte
          che sono tornato in Italia, son rimasto abbottonato. In Italia tornai, dopo
          il 1937, nel 1951: per visitare la Fiera di Milano. Ci tornai, dopo il 1951,

          nel  1968:  per  la  morte  di  mia  sorella.  Amici  e  conoscenti  mi  accolsero
          bene, entrambe le volte, a ettuosamente. Ma rimasi abbottonato, ripeto,
          e trascorso il tempo stabilito avvertii il bisogno di tornare a casa.

             Non  volli  nemmeno  rivedere  altre  città.  Non  me  ne  importava  più  di
          rivedere l’Italia.
             Andai  a  Mauthausen,  invece.  Ci  andai  perché…  Perché  in  me  c’era
          come un rancore.
             Sì: rancore, rancore! Io so benissimo che gl’italiani sono stati il popolo

          meno antisemita d’Europa. So benissimo che tanti italiani hanno rischiato
          la  pelle  o  si  son  fatti  ammazzare  per  protegger  gli  ebrei.  Tuttavia,  in
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