Page 214 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Senza un legame. E la mancanza di legame tra il passato remoto e il
domani era la mia nostalgia. Oh, i mattoni di Ferrara, i colori di Ferrara!
Rammentarli mi dava quasi un dolore sico. Oggi assai meno: i boschi
crescono anche qui in Israele, le città crescono… Ma allora! Di colorito, a
Tel Aviv, non c’era che la gente: sempre diversa nei lineamenti del volto e
negli abiti. Tale diversità traduceva le varie diaspore, denunciava la
mancanza delle nostre radici, ti dimostrava che il paese non era fatto. E il
vuoto materiale, il vuoto per cui non riuscivo a dipingere, diventava
anche un vuoto psicologico. Sì, gli israeliani che vengono dall’Italia sono
israeliani molto particolari.
Per no coloro che, come me, hanno vissuto più qui che in Italia, si
sentono ancora italiani. Infatti si cercano, spesso, stanno insieme… Solo
gli olandesi di Israele possono essere paragonati agli italiani di Israele.
Perché anch’essi vengono da un paese dove l’antisemitismo non è esistito
per secoli, un paese dove s’erano inseriti nel modo più completo, dove
avevano affondato radici.
Eppure non ho mai pensato di tornare indietro, in Italia. E a parte il
rimpianto per quel paesaggio di cui sono intriso, a parte la cultura di cui
non son riuscito a spogliarmi per sostituirla con la cultura ebraica, a parte
l’a etto che ho per gli italiani, avverto un gran distacco quando parlo
dell’Italia. Ad esempio: accorgermi che i valori della Resistenza sono quasi
perduti, in Italia, mi dà dolore: ma non ci fo una malattia. Pensare che in
Italia potrebbe succedere ciò che è successo in Grecia mi turba: ma non mi
sconvolge. Nel 1967 sono andato a Roma e ci ho vissuto per due anni e
mezzo, quale addetto culturale presso l’ambasciata di Israele. Ed ecco:
sono stato bene in quei due anni e mezzo. Avevo una bella casa,
l’automobile, la donna di servizio, tutti i vestiti che volevo, e non mi
sentivo nemmeno straniero perché in Italia ho tanti parenti e tanti amici:
ho ritrovato per no i miei compagni di liceo. Tuttavia mi sentivo
provvisorio, alienato. Perché, vede, neanche qui in Israele vivo nella
società che avevo sognato. Le cose, qui, sono andate meglio di quanto
immaginassi e peggio di quanto sperassi: per no il kibbutz oggi è meno
a ascinante. Nemmeno qui sono stato molto felice: ciò che mi commosse
di più quando uscii per la prima volta dal paese fu accorgersi che nel resto
del mondo si faceva ancora l’amore, v’erano ancora coppie che
passeggiavano con la mano nella mano. Me n’ero dimenticato, in
quell’assenza di romanticismo: in quella grandine di fatica e di guerra.
Turno nell’aranceto, turno in cucina, turno di guardia, fucilate… Sa che in
un kibbutz ci fu una serie di suicidi? Era un kibbutz nella valle del
Giordano: a un certo punto tutti furono presi da collasso nervoso e molti
si ammazzarono. Ed io ho spesso la sensazione di aver perduto qualcosa