Page 213 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
P. 213

Fu  quasi  subito,  nel  novembre  del  1939.  Mio  padre  m’aveva  iscritto
          all’università di Pavia, io avevo accettato a condizione di poter rientrare

          nel  kibbutz,  e  presto  la  data  degli  esami  venne   ssata.  Ebbi  la  notizia
          mentre lavoravo nell’aranceto. Era un mercoledì, ricordo. Partii subito e il
          venerdì ero a Pavia: una città che non conoscevo, un’università che non
          avevo mai frequentato. Ma quel che mi successe mi aiuta a capire perché
          voglio così bene agli italiani. A discutere la tesi c’era anche un laureando

          con l’uniforme di tenente della milizia e il pugnaletto. Arrogante, ubriaco.
          I professori lo cacciarono urlando e poi si rivolsero a me, gentilmente, per
          spiegarmi che a Pavia c’era una regola diversa: oltre alla tesi, bisognava

          dare  due  tesine.  «Lei  non  lo  sapeva,  però,  e  così  ci  siamo  permessi  di
          sceglier per lei due argomenti. Insomma, approntarle il materiale su cui
          prepararsi.»  Avevano  fatto  tutto,  capisce,  tutto.  E  dopo  si  scusaron
          per no di non potermi dare centodieci. Dove accadono certe cose se non
          in  Italia?  Io,  sull’umanità  degli  italiani,  ne  ho  da  raccontare  a  quintali.

          Nel 1949 tornai per andare a Cevoli, dove si trovava un campo di ebrei.
          Era notte, pioveva, e a un certo punto chiedo all’autista: «Come si fa ad
          andare a San Marco di Cevoli?». Interviene un contadino:

             «Quel posto dove stanno gli ebrei, se vuole ce l’accompagno». Poi, alla
          fermata  giusta,  si  scende  e  si  va  avanti  nella  pioggia,  nel  buio.  Si
          cammina  un’eternità,  cadendo  nelle  pozzanghere,  e   nalmente  il
          contadino mi dice: «Ecco, ora può continuare da solo.
             Mancano  pochi  metri».  «Come?  Non  doveva  venirci  anche  lei?»  gli

          chiedo.  «No,  io  sto  cinque  chilometri  dall’altra  parte»  risponde.  «Son
          venuto per accompagnarla.» E scompare nel buio. Senta, io sono stato in
          un mucchio di paesi e le dico che non esiste un altro popolo come quello

          italiano. Pieno di difetti, sì, ma così umano!
             Così è lecito chiedermi se ho mai avuto nostalgia per l’Italia. E… No,
          non l’ho avuta. Mi ero immunizzato prima di partire: dicendo a me stesso
          che la nostalgia è per gli imbecilli. La nostalgia non serve a niente. Non
          serve a niente fuorché a lasciarsi andare. La sola forma di nostalgia che

          ho  provato  in  tutti  questi  anni  è  stata  per  la  bellezza.  L’idea  della
          bellezza, per me, è legata all’Italia. All’Umbria, alla Toscana, alla visione
          di  un  bel  paesaggio,  una  bella  città,  una  colonna,  un…  Vede,  io  sono

          anche pittore. E il problema che mi perseguitava, a dipingere, era il vuoto
          di  questo  paesaggio  arido,  brullo,  monocolore.  C’erano  alberi,  sì,
          all’orizzonte. Ma tra me e quegli alberi c’era soltanto il vuoto: un vuoto
          da  riempire  con  la  fantasia  e  col  ricordo.  Cioè  col  Cinquecento,  il
          Seicento, coi secoli in cui noi italiani siamo cresciuti. In altre parole qui in

          Israele  saltavo  da  un’antichità  irraggiungibile,  quella  della  Bibbia,  al
          domani.
   208   209   210   211   212   213   214   215   216   217   218