Page 212 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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A volte la gente mi chiede: «Possibile che tu abbia deciso di andartene
solo in virtù di un ragionamento? Possibile che nessun elemento umano vi
abbia contribuito?». E io rispondo: «Possibile perché è avvenuto così.
Però, se il ragionamento non fosse esistito, gli esami di laurea mi
avrebbero fornito il pretesto umano». Ora mi spiego.
M’ero preparato con una tesi in ostetricia e m’ero ben preparato. Il
professore si chiamava Al eri, era parente del fascista Dino Al eri, e non
mi pose nemmeno una domanda. Disse: «Questo non sa nulla, può
andare». «Gli chieda qualcosa, professore!» esclamò l’assistente,
sbalordito. E lui: «Inutile. Non sa nulla». Dovetti andarmene senza aver
aperto bocca. Dovetti tentare una seconda volta. Ma anche la seconda
volta c’era l’Al eri, e si ripeté la stessa scena. Così mi stancai e raggiunsi
Liana che s’era fermata nel kibbutz Ghivat Brenner dov’era Enzo Sereni.
La cosa straordinaria è che non partii solo: con me c’era mio suocero, anzi
il mio futuro suocero. Era il 1939, erano esplose le leggi razziali, e ormai
anche lui mi dava ragione. Me ne dette ancora di più alla dogana di
Trieste. Poiché aveva un nome ebreo, lo spogliarono nudo. Gli portarono
via quasi tutte le sue cose: il denaro, i gioielli. Gli tagliaron per no il
sapone a fette.
I veri guai però incominciarono lì, nel kibbutz. Mi misi subito a fare il
bracciante e… La gente dice che ci si abitua a tutto. Non è vero. Al lavoro
sico io non mi abituai mai. Più passavano i mesi, gli anni e più mi
stancavo. Che fatica lavorare di zappa dalla mattina alla sera! Che fatica
caricarsi sulle spalle quelle casse piene di arance!
Inoltre si mangiava poco: la cena consisteva in mezzo uovo sodo e in un
po’ di pane.
Inoltre si dormiva in baracche. Quelle miste, cioè abitate da uomini e
donne, erano un po’ più decenti. Quelle degli uomini soli erano un vero
porcile. In ne io dormivo in una baracca e Liana in un’altra, con Artom.
Per dormire insieme a Liana dovetti convincer mio suocero a farci
sposare. La cerimonia fu sbrigativa e il risultato fu che non ottenemmo
neppure una tenda per stare soli. C’era una gran libertà sessuale, a Ghivat
Brenner, ma un uomo e una donna non riuscivano mai a stare soli. Che
so erenza. La maggior parte degli anni trascorsi nel kibbutz sono stati
anni di so erenza: fame, miseria, fatica, fucilate. Un inferno. Eppure io
non ho mai pensato di concludere: «Basta, ci siamo sbagliati, bisogna
tornare indietro». In fondo al cuore mi sentivo contento. C’era questo
ideale della patria ebraica, questa mistica del lavoro sico, e se mi
mettevano a fare un lavoro leggero avvertivo quasi un senso di colpa.
Dal kibbutz uscii solo una volta: per andare in Italia a prender la
laurea.