Page 207 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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L’ambasciatore  era  amico  della  contessa,  la  contessa  si  lamentava  di
          uno dei suoi  gli che stava uscendo dai binari, e l’ambasciatore esclamò:

          «Dovrebbe  mandarlo  in  un  kibbutz!».  Spiegò  cos’era  il  kibbutz  e  io  mi
          sentii folgorato: perché non tentare anch’io quella soluzione: il socialismo,
          il lavoro  sico, la vita comunitaria… La sera stessa telefonai a mio padre
          e  gli  dissi:  «Papà,  io  vado  in  un  kibbutz».  Mio  padre  non  mi  prese  sul
          serio.  Rispose  cretino,  imbecille,  sei  il  solito  scemo  che  chiacchiera  per

          chiacchierare: non lo farai mai. Invece lo feci. Lasciai che  nisse l’anno
          scolastico,  mi  trasferii  a  Torino  per  lavorare  in  casa  Agnelli  e  mettere
          insieme i soldi necessari al viaggio, infine partii.

             Ma non andai subito a Tel Aviv. Prima di a rontare il kibbutz volevo
          vedere  Parigi  e  così  andai  a  Parigi  dove  mi  innamorai  per no  di  una
          ragazza  cui  detti  a  bere  un  mucchio  di  balle:  che  la  volevo  sposare
          eccetera. Per quella ragazza rischiai per no di cambiare idea. Comunque
          non la cambiai e una settimana dopo ero a Tel Aviv, con l’indirizzo per

          l’Unione Kibbutz. Vi giunsi senza un soldo: avevo speso tutto con quella
          ragazza a Parigi. La notte non dormii neanche in un letto: dormii sulla
          spiaggia.  Sai  la  spiaggia  dinanzi  all’hotel  Dan.  All’alba  mi  svegliai  e,

          senza farmi la barba, mi presentai all’Unione Kibbutz, dove mi chiesero
          quanti soldi avessi in tasca. Mi rovesciai le tasche, misi ciò che avevo sul
          tavolo,  e  provocai  risate.  Con  tale  miseria,  dissero,  non  potevo  recarmi
          più  lontano  del  kibbutz  Nezer  Sereni  che  si  raggiungeva  con  l’autobus.
          Così presi l’autobus e raggiunsi il Nezer Sereni, insieme a Franco.

             Franco  era  un  ragazzo  milanese  che  avevo  incontrato  per  strada.  Era
          anche  un  maoista  pieno  di  visioni  profonde  e  di  intenzioni  lodevoli:  il
          kibbutz  doveva  costituire  il  suo  apprendistato  per  diventare  un  vero

          rivoluzionario e cambiare le sorti dell’umanità. In autobus non faceva che
          parlarmi  di  Mao,  di  Marx,  del  proletariato.  Però  appena  ci  misero  a
          lavorare  nei  campi,  qui  al  kibbutz,  smise  subito  di  parlare  di  Mao  e  di
          Marx e del proletariato: cominciò a lamentarsi e a dire che il sistema non
          gli piaceva, che portare pesi gli era impossibile in quanto gli mancavano

          le  dita  di  una  mano  eccetera.  E  la  sera,  anziché  insistere  sulle  sue
          profonde visioni maoiste, passò a raccontarmi le sue storie d’amore. Poi
          tornò in Italia e divenne un borghese identico a quelli che condannava. Lo

          so perché l’ho rivisto. È venuto a Tel Aviv come commesso viaggiatore di
          una ditta importante e viaggiava in prima classe, dormiva in un grande
          albergo, era elegantissimo. Gli ho detto: «Franco, non ti vergogni?». Ma
          lui ha risposto no, stava bene così.
             A  me  invece  il  kibbutz  piacque  subito.  Ecco  ciò  che  mio  fratello  non

          voleva capire quando piombò al Nezer Sereni per portarmi via: neanche
          fossi pazzo o mi avessero rapito. Mio fratello non faceva che esaltare le
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