Page 204 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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iscrissero al Fascio e finanziarono Mussolini.
             Devo incominciare da qui, e non per cortesia. Non sono un tipo cortese,

          sono un  orentino brusco. Devo incominciare da qui perché simili episodi
          caratterizzano un popolo e spiegano la scelta che feci nel 1943 entrando
          nella  Resistenza.  Io  non  appartengo  al  gruppo  degli  ebrei  che  dissero:
          «L’antifascismo non mi interessa, riguarda gli italiani». Io appartengo al
          gruppo degli ebrei che sentirono il dovere e la  erezza di partecipare alla

          lotta  partigiana:  essa  mi  apparteneva  come  mi  avrebbe  appartenuto  la
          guerra di Spagna se al tempo della guerra di Spagna non fossi stato un
          ragazzo. Voglio dire che, per me, l’antifascismo non fu solo un modo per

          combattere l’antisionismo: fu anche un modo per rendermi utile al paese
          che amavo. Dopo l’8 settembre entrai nel Partito d’azione. Avrei potuto
          entrare  anche  nel  Partito  socialista  o  nel  Partito  Comunista:  scelsi  il
          Partito d’azione perché lì avevo amici. Con loro feci parte delle «squadre
          di città», combattei nella divisione Modena, fui paracadutato al nord dopo

          l’arrivo  degli  alleati.  E  quest’ultima  cosa  è  importante  perché,  liberata
          Firenze, avrei potuto recarmi in Palestina: l’emigrazione in massa era già
          incominciata.

             Ma  il  mio  lavoro  per  l’Italia  non  era  concluso,  e  chiesi  d’esser
          paracadutato  al  nord.  Il  18  agosto  del  1944,  a  Farneta,  in  provincia  di
          Modena. Insieme ad altri due dovevo installare una radio, metter su una
          rete di informazioni, addestrare i partigiani all’uso degli esplosivi, in ne
          far passare al di qua della Linea Gotica alcuni soldati americani.

             Un’impresa  di cilissima  anche  perché  i  rapporti  tra  gli  inglesi  e  gli
          americani  erano  così  tesi.  Un’impresa  che,  secondo  molti  ebrei,  non
          portava nulla al sionismo. Vero.

             Però  portava  qualcosa  all’Italia.  Solo  dopo  la   ne  della  guerra  e  la
          caduta  del  fascismo  io  ripresi  l’attività  sionistica  e  mi  sentii  pronto  a
          venire qui.
             Rinunciarvi sarebbe stato comodo. Ormai, in Italia, nessuno disturbava
          più gli ebrei.

             Avrei potuto riprender gli studi, oppure occuparmi degli a ari di mio
          padre  che  a  Firenze  era  commerciante  di  tessuti  all’ingrosso,  oppure
          dirmi: «Devo costruire la democrazia in Italia». Ma i miei conti con l’Italia

          eran saldati e la democrazia dovevo costruirla qui, per fondare un paese
          dove nessuno avrebbe mai ingiunto agli ebrei: «Da oggi non puoi studiare
          al Liceo Dante, devi trasferirti al Liceo Ebraico». E partii. Solo.
             Mio  fratello  non  volle  venire.  I  miei  genitori  avrebbero  voluto  venire
          ma  mio  fratello  li  sconsigliò  sostenendo  che  l’emigrazione  era

          un’avventura pei giovani. Né potevo dargli torto: ambientarsi in Israele,
          nel 1948, era molto duro. Non duro come negli anni Venti e negli anni
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