Page 200 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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italiani, sia detto senza cattiveria, non fanno mai le cose sul serio.
             Partii  da  Trieste.  Si  partiva  tutti  di  lì  per  andare  nella  Palestina  di

          allora. Sulla nave ero il solo italiano e… Non so dire se fossi felice. Chi
          era ebreo nel 1938 non poteva esser felice. Non so dire nemmeno se fossi
          contento. Posso dire soltanto che ero in pace con me stesso perché andavo
          a cercare la mia strada, pur non essendo sicuro di trovarla. Non sapevo
          cosa  avrei  trovato,  non  sapevo  se  mi  sarebbe  piaciuto  quel  che  avrei

          trovato.  A  rallegrarmi  c’era  solo  l’idea  che  Silvia,  la  mia   danzata,
          m’avrebbe  raggiunto.  Anche  Silvia  apparteneva  a  una  famiglia  molto
          assimilata. Suo padre era generale, gran patriota, e si arrabbiava quando

          dicevo  che  agli  ebrei  in  Italia  sarebbe  successo  ciò  che  succedeva  in
          Germania. Però Silvia aveva frequentato i campeggi degli ebrei, come me,
          ed  era  diventata  una  sionista  convinta.  Aveva  organizzato  lei  il  mio
          viaggio,  consolandosi  all’idea  che  arrivando  non  sarei  stato  solo.  A
          Gerusalemme viveva una mia cugina: la sorella di Sion Segre. Era venuta

          nel 1928, dopo aver sposato un ebreo polacco conosciuto in Italia. Così,
          giunto ad Haifa, ci passai la notte e l’indomani mi recai a Gerusalemme.
          A casa di mia cugina trovai Nino Hirsch, e Nino mi portò subito al kibbutz

          Ghivat Brenner.
             Non fu facile per me abituarmi al kibbutz. Non ero fatto per il lavoro
          bruto  dei  pionieri,  non  avevo  i  muscoli  del  contadino  o  dell’operaio.  Il
          mio insomma fu il caso degli altri ex-ricchi, ex-borghesi, che erano venuti
          qui armati soltanto del loro idealismo. Fu anche il caso di Silvia che mi

          raggiunse  nel  1939,  con  la  cauzione  di  mille  sterline  che  gli  inglesi
          pretendevano da chi veniva in Palestina come turista. Silvia era partita
          da  Parigi  dove  s’era  trasferita,  dopo  le  leggi  razziali,  per  studiare

          all’università: terz’anno di chimica. Come a Torino, a Parigi aveva vissuto
          negli  agi  e  ricordo  quanto  pianse  il  giorno  in  cui  la  sorvegliante
          dell’aranceto  lasciò  un  bigliettino:  «Domani  non  rimandatemela».  La
          sorvegliante  infatti  s’era  accorta  che  Silvia  coglieva  meno  arance  degli
          altri perché le sue mani si scorticavano facilmente. Oh, pagammo con tali

          so erenze l’orgoglio di guadagnarci il pane col lavoro  sico e l’impegno
          di  tener  fede  a  una  scelta!  Lo  choc  fu  violento  anche  perché  eravamo
          italiani. Da buoni italiani, avevamo difficoltà a mischiarci con gli altri e la

          mancanza  di  privacy  ci  tormentava.  Ad  esempio,  non  poter  avere  una
          stanza o una tenda dove stare soli quando ci si sposava.
             Ad  esempio,  doversi  nascondere  nell’aranceto  per  abbracciarci.  Ad
          esempio,  fare  la  doccia  in  comune…  Che  orrore!  All’inizio,  a  Ghivat
          Brenner, uomini e donne facevano la doccia insieme. Quando arrivammo

          noi,  le  donne  la  facevano  separatamente.  Però  restava  l’agonia  di
          spogliarci dinanzi a tutti, lavarci dinanzi a tutti! Gli ebrei giunti da altri
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