Page 196 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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soltanto: io-son- viva». Gisella io la vidi, per caso, qualche giorno dopo.
Eravamo stati danzati, io e lei, e poi ci eravamo lasciati perché le
famiglie non volevano che ci sposassimo. La vidi da lontano, oltre il lo
spinato. Ero riuscito a rubare una cipolla cruda e le gettai la cipolla. Lei
l’a errò con ingordigia e la divorò in due morsi. Gisella si salvò per caso,
durante l’evacuazione di Auschwitz. Al cancello, un tedesco la rimandò
indietro perché portava zoccoli di legno: non avrebbe potuto marciare con
gli zoccoli di legno. Così Gisella si nascose in cucina, insieme a Wanda
Bola o di Firenze, e vi rimase no alla liberazione. Anch’io, alla ne, fui
liberato; ma a Dachau: nel ’45. Dopo la marcia sulla neve ero arrivato a
Dachau, e perché sopravvissi a Dachau non so: all’arrivo degli americani
pesavo trentasei chili. Il fatto è che m’ero così abituato alla so erenza: il
mio dramma esplose dopo, quando fui di nuovo a casa. Una volta a casa,
il mondo mi crollò addosso. Non sapevo più sentirmi libero: mangiare
cose buone, dormire in un letto, andare al gabinetto da solo, cioè senza
cinquanta persone a contatto, mentre il kapò ti frusta e ti costringe a tirar
su i calzoni sebbene tu li abbia appena slacciati e tu non abbia ancora
fatto i tuoi bisogni. «Via! Sei stato lì abbastanza, via!» Non so come
spiegarlo. Voglio dire: un uomo agogna qualcosa, una chimera, e quando
la ottiene si accorge che era solo una chimera. Insomma avevo la libertà e
questa era priva di senso per me; era un dono cui non ero più abituato. Io
non potrei mai scrivere un libro su Auschwitz. No. Dovrei raccontare cose
troppo incredibili. Però potrei scrivere un libro sul mio ritorno: sul fatto
che la famiglia non mi interessasse più, il lavoro non mi interessasse più,
il sesso non mi interessasse più, la libertà non mi interessasse più. La
notte dormivo con mia madre perché mi svegliavo urlando e avevo
bisogno di qualcuno che mi calmasse. Il giorno giravo senza meta, senza
curiosità, e a un certo punto mi sono detto: «Perché continuare a vivere?
Meglio suicidarsi». E la morte m’è sembrata una soluzione normale, come
al campo.
Ma al campo, l’ho già spiegato, suicidarsi era facile. Nella libertà invece
era di cile: c’era sempre qualcosa che all’ultimo momento mi tratteneva.
Sicché ho pensato: se non riesco a suicidarmi, devo sposarmi. Il
matrimonio signi cava un impegno, un fardello, una schiavitù: cioè
qualcosa che mi era ormai familiare. E poi signi cava una donna nel
letto, per svegliarmi quando urlavo nel sonno. E ho ricercato Gisella e ci
siamo sposati. E insieme abbiamo deciso di emigrare in Israele. Era un
vecchio sogno e… Vede questo numero sul braccio? È il mio numero ad
Auschwitz:
173154. Non va via, ammeno di non farci la plastica. A Gisella, che
aveva l’A5376, il sole l’ha un po’ schiarito. A me è rimasto netto come il